«COSÌ HO RIFATTO GRANDE IL MILAN»
LA LEADERSHIP, PIOLI, LO SCUDETTO, IL COVID LE NUOVE SFIDE: ECCO IL MONDO DI ZLATAN
«La conferma di un tecnico come Stefano è stata la mossa decisiva. Adesso c’è voglia di dare sempre di più»
Tutto quello che avreste voluto sapere su Ibrahimovic ve lo dice lui: il perché della fuga in America, il perché del ritorno e perché proprio al Milan, la sua missione che consiste nel far crescere i giovani (in rossonero, ma anche in Svezia), l’ansia delle giornate passate in compagnia del Covid, il calcio che cambia non necessariamente in peggio. E, certo, la voglia di vincere. Da cui non guarisce.
Zlatan Ibrahimovic, che cos’è il gol? «Una mia responsabilità. Un dettaglio. Un dettaglio che ti fa vincere le partite. Non una mia esclusiva. Anche quando servo un compagno che segna sento di aver fatto bene il mio mestiere».
È arrivato lei al Milan, da dodicesimi siete passati sesti e adesso siete primi. Una rarità la squadra che ha lei in campo e non vince il titolo. Chiamiamolo effetto Ibrahimovic. Ce lo può descrivere?
«Oggi mi sento un leader. Io guido, la squadra mi segue. Dieci anni fa era un altro Milan. Ma anche il Milan che ho trovato nel 2020 era diverso. Sempre una squadra molto giovane. Abbiamo lavorato, ci siamo sacrificati. Ecco i risultati. Non è solo merito mio».
Sarà, ma confrontando le formazioni si vede che la novità sostanziale è lei.
«Non posso giudicare quanto c’era prima di me. Stiamo facendo grandi cose, è vero, com’è vero che non abbiamo vinto un bel niente. C’è la voglia di fare di più».
Magari quando ha regalato ai compagni una Playstation aveva lo scopo di eliminare altre distrazioni?
«In realtà avevo chiesto: chi la vuole a un certo prezzo? A quelli che si sono messi in lista l’ho regalata, agli altri ho detto: eh no, troppo tardi. Così ho capito con chi avevo a che fare (ride). Adesso mi danno tutti retta, però».
Ha pure costretto Kalulu a togliersi i guanti.
«E certo. Un giovane che debutta da difensore con i guanti che figura fa? Di sicuro non mette paura all’avversario».
E lei di difensori si intende.
«Mi sono sempre piaciuti quelli che accettano il duello duro e leale. E ricordiamoci che prima non c’era il Var. Paolo Maldini mi stimolava. Ora dice che all’epoca non ero forte come oggi, ma se ricordo bene non è che vincesse tutti i confronti con me. Mi piace Chiellini, un animale che continua a darti la caccia. Quella è la mentalità giusta»
A Donnarumma che dice?
«È il portiere più forte del mondo. Ma no, a lui non lo dico. Deve continuare ad avere fame. Non è normale che non abbia mai disputato una partita di Champions».
Beh, sono sette anni che il Milan in Champions non gioca. Almeno il traguardo della qualificazione si può promettere?
«E’ presto. Quanto manca? Tutto il ritorno più due partite. Inoltre porsi obiettivi è come porsi limiti. Non lo faccio mai. Il secondo è il primo degli ultimi. Voglio cavare il meglio da me e dalla squadra, ogni giorno, allenamenti compresi».
Un Milan tanto a lungo fuori dell’élite non è normale.
«No. Né per la società né per i tifosi. Con tutto il rispetto, vedo l’Atalanta in Champions e il Milan no e sono venuto per cambiare questa situazione. Io non so che cosa sia accaduto per sette anni. Mi sembra chiaro che se non c’è stabilità nel club non può esserci neppure in campo».
Per questo durante il lockdown ha discusso con l’amministratore delegato Gazidis?
«Tutti a casa, non si faceva niente, poi si tornava, la squadra intera chiedeva certezze, risposte, e non ne riceveva. Sono andato a cercarle. Solo con la conferma di Pioli la situazione si è chiarita. Eravamo stressati, ci sentivamo sotto processo prima ancora di fare qualcosa. La fiducia comunque non ci ha mai abbandonati. Ma parliamo di presente e futuro, per favore».
Bene, parliamo del rapporto tra lei e Pioli: due persone che in apparenza non potrebbero essere più diverse.
«Lui allena, io gioco. Lui mi chiede di fare certe cose e io eseguo. Ha fiducia in me e mi dà istruzioni che mi piacciono. Un buon bilanciamento dei compiti. Mi trovo bene in campo e fuori. Lo scorso anno era anche lui nella situazione di non sapere se il giorno dopo avrebbe lavorato o no. Un altro avrebbe salutato dicendo: grazie, vado dove c’è un domani. Lui invece ogni giorno mandava messaggi di rassicurazione ai calciatori. E ha dimostrato di essere un allenatore da grande squadra».
Con lei è cresciuto il Milan, ma anche la Serie A ha aumentato il suo prestigio. Ibra e Ronaldo insieme praticamente bastano a fare campionato.
«Ciascuno di noi due vuole dare tutto per la propria squadra ed essere il migliore. Chi poi lo sia davvero non siamo noi a doverlo giudicare».
Adesso che siete qui, l’Italia non vuole perdervi. Lei quando deciderà il suo futuro?
«Finché sto bene vado avanti. A giugno scade il mio contratto e ne parliamo. Non volevo intrappolarmi in situazioni senza uscita e neppure intrappolarci il mio club. Per questo all’arrivo ho firmato per sei mesi e poi ho rinovato. Altri hanno ragionato diversamente, io sono per la libertà di scelta».
Intanto ha portato i suoi figli ad allenarsi al centro giovanile rossonero. Intende portare la famiglia a vivere a Milano? «Vediamo. Non escludo nulla».
Che cos’è a spingerla ancora avanti? Sfidare l’età? Arrivare a mille partite? Rivincere la Champions?
«Non ho idea di quante partite ho disputato. Non recitiamo numeri, mi fanno sentire vecchio. La mia sfida oggi è far maturare una squadra giovane, situazione diversa da quelle a cui ero abituato. Riuscirci mi dà una gioia addirittura superiore a quella di una vittoria».
«In America ho scoperto di essere ancora vivo, ma non potevo chiudere lì. Il mio scudetto è far crescere i giovani. Non significa che mi accontenti: campione d’inverno non vuol dire niente»
Ha fatto la conoscenza del virus. Come ha vissuto davvero quei giorni, al di là dei messaggi spavaldi sui social?
«Quando mi hanno annunciato la positività non sapevo davvero che cosa aspettarmi. Leggevo e ascoltavo di tutto senza capire. Ero chiuso in casa a parlare con i muri, con il tempo che passava lentissimo, aspettando di avvertire i sintomi. Sono arrivati: un giorno mal di testa, un altro dolori alla schiena. Dopo un po’ ho perso il senso del gusto. Febbre mai. Dopo sedici giorni mi hanno detto che mi ero negativizzato. Ho provato ad allenarmi in casa e mi affaticavo subito».
Lì le è venuto in mente di diventare allenatore in streaming su Buddyfit?
«A pagare di più in questa pandemia sono le giovani generazioni. Non possono andare a scuola, non possono fare sport come dovrebbero. Per loro gli anni a venire saranno differenti. E se
«I difensori devono essere “animali”, come Chiellini: per questo ho tolto i guanti a Kalulu»
continua così non si può prevedere se avremo ancora voglia di andare in palestra, di stare l’uno vicino all’altro come prima».
Per non sbagliare è anche entrato nell’Hammarby, una squadra svedese di massima serie.
«Devo capire se è possibile costruire un altro tipo di calciatore. In Svezia non ci sono Ibrahimovic.
E vorrei ce ne fossero. Beh, uno che non sembra svedese esiste: Emil Roback. Fisico, velocità, tecnica, movimenti. Infatti il Milan lo ha preso. Credo che entrerà stabilmente in prima squadra».
Questo Zlatan che pensa agli altri sembra molto lontano da quello dei primi anni, del caratteraccio, delle intemperanze. «Ho quasi quarant’anni. Non mi piace dirlo, ma è la verità. Quando ero giovane avevo grandi emozioni, adesso ho grande esperienza. Anche per questo in campo faccio meno cose ma più utili. Tanti smettono arrivati ai trentacinque. Chi è intelligente può adattarsi e continuare».
Conosciamo tanta narrativa sulla sua infanzia difficile, turbolenta. In quale modo lo Zlatan di oggi è figlio di quella fase della sua vita? «Io so chi sono e lo sanno anche le persone che mi stanno accanto. Non m’interessa quello che gli estranei raccontano su di me. Non posso sfuggire alle chiacchiere di chi pensa di conoscermi».
Prima di tornare al Milan è fuggito in America ed è fuggito dall’America. Perché?
«In America ho scoperto di essere un calciatore ancora vivo dopo il mio infortunio. Un anno a Los Angeles solo per capire come stavo. Nel secondo sono tornato a inseguire obiettivi. Quindi ho pensato: smetto di giocare o continuo? E il mio agente Mino Raiola: troppo facile smettere in America, prova a farlo in Europa. Ho scelto il Milan perché era la sfida più difficile. Non m’interessava un poker servito, mi attirava l’impossibile».
Ibrahimovic allenatore o dirigente, in futuro?
«Mica prendo impegni di questo genere. Quello del tecnico mi sembra un lavoro molto stressante, ma chi lo sa. Oggi mi piace troppo stare in campo».
Eppure c’è chi sostiene che il gioco vada di male in peggio. «Secondo me si migliora di continuo. Anche il
Var rende tutto più chiaro. Certo, sui falli di mano lo scorso anno non si capiva un accidente. A me hanno tolto il gol dell’anno a Firenze. Il gioco è cambiato, sì, ma solo nel senso che anni fa decidevano i fuoriclasse. Oggi vedi squadre che entrano nella Top Five grazie al collettivo: dicevamo dell’Atalanta, che sta facendo cose enormi da due stagioni. Ah, ho sentito parlare di Superlega europea. Un bel giochetto politico tra Uefa e Fifa».
Kulusevski l’ha invitata a tornare in Nazionale. Ci pensa? «Ovvio. Tutto dipende da come sto. Devo portare qualità, non il mio nome».
In bocca al lupo per la volata del titolo d’inverno.
«Non m’interessa arrivare a fine anno e scoprire che sono stato solo campione d’inverno».
«Nell’intelligenza sta il segreto della longevità in campo Il calcio cambia, bisogna adattarsi» «Quando sono tornato in Europa non volevo un poker servito: cercavo l’impossibile» «È assurdo che Donnarumma, il più forte al mondo, non conosca la Champions»