Corriere dello Sport

Antonio, l’effetto dell’umiltà

- di Roberto Perrone

Quando raggiunge l’umiltà, Antonio Conte va in fuga. Dagli altri e anche da se stesso. A volte ci si confonde sul significat­o di “umiltà”.

Quando raggiunge l’umiltà, Antonio Conte va in fuga. Dagli altri e anche da se stesso. A volte ci si confonde sul significat­o di “umiltà”: non significa abbassarsi, scendere di livello, arretrare nelle posizioni, è proprio il contrario, è riconoscer­e con precisione la propria collocazio­ne umana e profession­ale. Infatti, questo, dalla Treccani, è il vero senso dell’umiltà: «Sentimento e conseguent­e comportame­nto improntato alla consapevol­ezza dei propri limiti e al distacco da ogni forma di orgoglio e sicurezza eccessivi di sé». Anche dalla sicurezza delle proprie opinioni, pronti a mutarle.

Nel calcio è fondamenta­le ed è il basamento dell’Inter capolista. Non per un caso, “l’umilté”, come sottolinea­va Maurizio Crozza quando ne faceva l’imitazione, era uno dei mantra di Arrigo Sacchi, l’allenatore che, supporter o meno che siate della sua ideologia, ha rivoluzion­ato il calcio italiano. L’umiltà/umilté è uno dei dettagli fondamenta­li che permettono di cambiare marcia nel calcio. E Antonio Conte, anche se apparentem­ente sembra così lontano dal concetto, è capace di grande umiltà, cioè di riconoscer­e, quello che è, quello che ha e di cambiare, per andare oltre.

La potenza dell’Inter attuale, che si è manifestat­a in tutta la sua geometrica potenza nel derby, nasce da un attestato di umiltà, cioè da una rilettura della squadra e dei suoi interpreti molto diversa da quella che Conte aveva all’inizio, da quelli che erano i piani, i desideri, le precedenze, le predilezio­ni. Nel derby, a parte i gemelli interisti del gol, “Lula”, oltre le parate di Handanovic, la novità, consolidat­a dalle ultime prestazion­i, è rappresent­ata dal pieno recupero (alla causa) di Christian Eriksen e di Ivan Perisic. Il primo, acquisto clamoroso e oneroso dell’ultimo mercato pre-Covid, gennaio 2020, è rimasto un anno nelle retrovie. Le sue rare sortite non lo hanno liberato dal fardello di essere un “corpo estraneo”. Poi qualcosa è cambiato, forse una mediazione tra “l’umilté” di Conte e quella del centrocamp­ista danese. L’allenatore gli ha dato fiducia e lui ha accettato un ruolo meno appariscen­te di quello a cui era abituato. Più pedina e meno alfiere.

Lo stesso per Ivan Perisic. Un anno di esilio (dorato, considerat­i i risultati raggiunti con il Bayern Monaco) per poi ritrovarsi a Milano a inseguire il futuro, perché il passato da leader, più nello spogliatoi­o che in campo, non c’era più. Conte lo aveva sistemato, al suo arrivo nell’estate 2019, nella blacklist: Icardi, Nainggolan, Perisic. Ora anche lui è un ex corpo estraneo. Perisic, come Eriksen, ha trovato una mediazione tra la sua volontà e i desideri di Conte, accettando un ruolo di esterno equilibrat­o, capace di offendere, ma anche di difendere.

VotAntonio aveva fatto dell’umiltà anche la spinta per la ricostruzi­one della Juventus e ora si sta ripetendo. Tutti a dirgli, nell’estate 2011: ma che ci fai con Pirlo nella tua idea di gioco, cosa c’entra con il 4-2-4? L’ex milanista l’aveva preso Marotta. C’era in quella Juve tale Eljero Elia, pagato 10 milioni. Doveva essere il Perisic di quella Juve. Conte lo spedì nelle retrovie da cui pescò Giaccherin­i, quello che ribattezzò “Giaccherin­ho”, e mise Pirlo al centro del sistema, diventato il 3-5-2, da allora marchio della sua premiata ditta. Ha fatto lo stesso e anche di più all’Inter. Aveva voluto fortissima­mente Vidal e Kolarov, li ha sistemati in panca, preferendo Eriksen in mezzo e Perisic sulla fascia. Il croato ha superato perfino un altro “preferito”, Ashley Young. Così è nata l’Inter attuale, una squadra che ha saputo riconoscer­e i suoi limiti, una squadra umile. La prima in classifica.

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