Antonio, l’effetto dell’umiltà
Quando raggiunge l’umiltà, Antonio Conte va in fuga. Dagli altri e anche da se stesso. A volte ci si confonde sul significato di “umiltà”.
Quando raggiunge l’umiltà, Antonio Conte va in fuga. Dagli altri e anche da se stesso. A volte ci si confonde sul significato di “umiltà”: non significa abbassarsi, scendere di livello, arretrare nelle posizioni, è proprio il contrario, è riconoscere con precisione la propria collocazione umana e professionale. Infatti, questo, dalla Treccani, è il vero senso dell’umiltà: «Sentimento e conseguente comportamento improntato alla consapevolezza dei propri limiti e al distacco da ogni forma di orgoglio e sicurezza eccessivi di sé». Anche dalla sicurezza delle proprie opinioni, pronti a mutarle.
Nel calcio è fondamentale ed è il basamento dell’Inter capolista. Non per un caso, “l’umilté”, come sottolineava Maurizio Crozza quando ne faceva l’imitazione, era uno dei mantra di Arrigo Sacchi, l’allenatore che, supporter o meno che siate della sua ideologia, ha rivoluzionato il calcio italiano. L’umiltà/umilté è uno dei dettagli fondamentali che permettono di cambiare marcia nel calcio. E Antonio Conte, anche se apparentemente sembra così lontano dal concetto, è capace di grande umiltà, cioè di riconoscere, quello che è, quello che ha e di cambiare, per andare oltre.
La potenza dell’Inter attuale, che si è manifestata in tutta la sua geometrica potenza nel derby, nasce da un attestato di umiltà, cioè da una rilettura della squadra e dei suoi interpreti molto diversa da quella che Conte aveva all’inizio, da quelli che erano i piani, i desideri, le precedenze, le predilezioni. Nel derby, a parte i gemelli interisti del gol, “Lula”, oltre le parate di Handanovic, la novità, consolidata dalle ultime prestazioni, è rappresentata dal pieno recupero (alla causa) di Christian Eriksen e di Ivan Perisic. Il primo, acquisto clamoroso e oneroso dell’ultimo mercato pre-Covid, gennaio 2020, è rimasto un anno nelle retrovie. Le sue rare sortite non lo hanno liberato dal fardello di essere un “corpo estraneo”. Poi qualcosa è cambiato, forse una mediazione tra “l’umilté” di Conte e quella del centrocampista danese. L’allenatore gli ha dato fiducia e lui ha accettato un ruolo meno appariscente di quello a cui era abituato. Più pedina e meno alfiere.
Lo stesso per Ivan Perisic. Un anno di esilio (dorato, considerati i risultati raggiunti con il Bayern Monaco) per poi ritrovarsi a Milano a inseguire il futuro, perché il passato da leader, più nello spogliatoio che in campo, non c’era più. Conte lo aveva sistemato, al suo arrivo nell’estate 2019, nella blacklist: Icardi, Nainggolan, Perisic. Ora anche lui è un ex corpo estraneo. Perisic, come Eriksen, ha trovato una mediazione tra la sua volontà e i desideri di Conte, accettando un ruolo di esterno equilibrato, capace di offendere, ma anche di difendere.
VotAntonio aveva fatto dell’umiltà anche la spinta per la ricostruzione della Juventus e ora si sta ripetendo. Tutti a dirgli, nell’estate 2011: ma che ci fai con Pirlo nella tua idea di gioco, cosa c’entra con il 4-2-4? L’ex milanista l’aveva preso Marotta. C’era in quella Juve tale Eljero Elia, pagato 10 milioni. Doveva essere il Perisic di quella Juve. Conte lo spedì nelle retrovie da cui pescò Giaccherini, quello che ribattezzò “Giaccherinho”, e mise Pirlo al centro del sistema, diventato il 3-5-2, da allora marchio della sua premiata ditta. Ha fatto lo stesso e anche di più all’Inter. Aveva voluto fortissimamente Vidal e Kolarov, li ha sistemati in panca, preferendo Eriksen in mezzo e Perisic sulla fascia. Il croato ha superato perfino un altro “preferito”, Ashley Young. Così è nata l’Inter attuale, una squadra che ha saputo riconoscere i suoi limiti, una squadra umile. La prima in classifica.