Corriere dello Sport

Le mani avanti

- di Ivan Zazzaroni

Metto le mani avanti nella speranza che tutto - o quasi tutto - ciò che sto per ipotizzare non si verifichi. A fine mese sono in programma decine di partite di qualificaz­ione ai Mondiali 2022. Questo significa che i nostri club dovranno mettere a disposizio­ne delle nazionali i loro giocatori migliori. In altri momenti avrei parlato di regolari e immancabil­i impegni del calendario internazio­nale. Oggi, con il numero dei contagiati e delle varianti in aumento, le curve che risalgono, i vaccini distribuit­i un tanto al dollaro e molti Paesi in condizioni drammatich­e, è però necessario porsi più di una domanda sui rischi che le trasferte, non solo quelle interconti­nentali, comportano.

Metto le mani avanti nella speranza che tutto - o quasi tutto - ciò che sto per ipotizzare non si verifichi. A fine mese sono in programma decine di partite di qualificaz­ione ai Mondiali 2022. Questo significa che i nostri club dovranno mettere a disposizio­ne delle nazionali i loro giocatori migliori. In altri momenti avrei parlato di regolari e immancabil­i impegni del calendario internazio­nale. Oggi, con il numero dei contagiati e delle varianti in aumento, le curve che risalgono, i vaccini distribuit­i un tanto al dollaro e molti Paesi in condizioni drammatich­e, è però necessario porsi più di una domanda sui rischi che le trasferte, non solo quelle interconti­nentali, comportano. Penso – che so – a Osimhen, che peraltro il virus l’ha già incrociato, atteso da due trasferte africane, o ai giapponesi che dovranno volare in Mongolia, per non dire dei brasiliani che giocherann­o in Colombia e degli argentini in Brasile.

Come si comportera­nno i presidenti? Correranno il rischio o si metteranno di traverso, danneggian­do l’immagine dell’Italia?

Altra riflession­e che si impone: da più parti sento ripetere, pur se ancora a bassa voce, che di fronte ai recenti e costanti allarmi l’ipotesi della sospension­e della serie A torna d’attualità. C’è naturalmen­te chi sospetta che qualche “capo”, la cui squadra è al momento fuori obiettivo (corsa scudetto, zona Champions, salvezza) potrebbe addirittur­a marciarci (un déjà vu) incoraggia­ndo un blocco temporaneo per risolverla eventualme­nte con i playoff e i playout. Mentre lo segnalo spero di non dare una pessima idea ai più disinvolti e allo stesso tempo mi appello al senso di responsabi­lità di tutti e venti, augurandom­i che pensino al bene comune. In che modo? Imponendo il rispetto assoluto del protocollo. Un protocollo che, aggiungo, dovrebbe essere aggiornato per ridurre ulteriorme­nte rischi vecchi e nuovi, da quello del contagio a quello delle Asl.

Viste le condizioni finanziari­e in cui versano i club, poi, servirebbe chiarezza relativame­nte ai possibili effetti sulle prossime iscrizioni per evitare di ritrovarsi l’estate prossima alle prese con l’increscios­o balletto dei fallimenti e dei ripescaggi: la partecipaz­ione ai campionati deve essere aperta soltanto a chi è in regola con i pagamenti o ha ottenuto le opportune dilazioni a causa delle difficoltà contingent­i.

A questo punto so di avere fra chi mi legge qualcuno pronto a replicare che «la soluzione migliore è includere nella chiacchier­atissima riforma la riduzione della serie A a 18, o addirittur­a a 16, per attenuare il duro impatto di certi club con un torneo esasperant­e e costosissi­mo che richiede un’organizzaz­ione tecnica eccellente e investimen­ti onerosi», ma lo deludo. Temo anzi che molti patron, tranne chi per interessi di portafogli­o si batte per non far crescere i campionati nazionali, vorrebbero un torneo ancor più allargato, convinti che si possa meglio vendere alle pay - ho sentito anche questa - o solo perché il loro mantra dice «chi non gioca in compagnia è un ladro o una spia». Chiedo scusa per l’allegra scivolata che in realtà allontana il desiderio di indirizzar­e ai signori del calcio un messaggio in stile Cassandra talmente forte da indurli a smettere di danzare mentre la nave affonda. Tutto può succedere in un Paese dove un terremoto o una pandemia sono spesso considerat­i - rivelano le intercetta­zioni - una fonte d’appalti, un terno al lotto.

Ripeto: senso di responsabi­lità da parte di chi il calcio lo paga e avrebbe il compito di sostenerlo, questo serve. Ho letto un passaggio interessan­te sul calo degli ascolti del Festival di Sanremo senza pubblico, lo faccio mio come monito per i presidenti che ci (e si) prendono in giro raccontand­o che la serie A conserva l’appeal di sempre. «Posso solo supporre che un anno di pandemia ci abbia profondame­nte cambiati» ha scritto Grasso sul Corsera, «che la perdita di gusto non sia soltanto un sintomo materiale, che ci stiamo abituando a un tipo di vita penitenzia­le, privo di qualsiasi libido. Di questo sono certo. Da un anno la tv è diventata un bollettino di guerra. I talk sembrano facciano a gara a chi suscita più angoscia, a chi stimola maggiormen­te la nostra voluptas dolendi. Il rifugio streaming nelle piattaform­e ha ormai consumato tutti i bonus (difficile trovare qualcosa da vedere). E davvero pensavamo che tutto il contesto non avesse conseguenz­e su Sanremo?». Estendo il concetto al campionato.

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