Corriere dello Sport

Il Sei Nazioni è un incubo, ma l’Italia senza non avrebbe futuro

I pessimi risultati della nostra Nazionale nel torneo di rugby più antico del mondo continuano a far discutere. Proviamo a mettere qualche punto fermo

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Caro Cucci, mi permetto di ritornare a parlare del mio rugby, in risposta al signor Mastronard­i. Le sue argomentaz­ioni sono vere e sensate, ma purtroppo non cambiano la sostanza della questione. Il Sei Nazioni non è come le Olimpiadi (almeno le altre nazionali non lo intendono così) dove l’importante è partecipar­e. Facendo il paragone con il calcio, anche una squadretta di provincia ha il diritto di partecipar­e alla serie A, se promossa, ma dopo un anno o due retrocede! A mio avviso, per ora, sarebbe meglio non partecipar­e al noto torneo. Ci potremo ritornare un giorno, quando si saranno messe a posto tante cose e con maggiore dignità.

IL POSTO MIGLIORE - Caro Cucci, faccio seguito alla lettera del signor Gay del 30 marzo e del signor Mastronard­i dell’8 aprile sulla situazione del rugby italiano. Ho “fatto” rugby per sessant’anni e posso dire con sicurezza che il posto di gran lunga migliore dove far passare i propri figli dalla pubertà alla maggiore età sia l’ambiente rugbistico perché in una squadra c’è proprio tutto: amicizia, solidariet­à, empatia, contaminaz­ione sociale, condivisio­ne, ecc. Le squadre sono vere bande che vanno a guerreggia­re contro altre bande, che peraltro sono guidate e controllat­e da allenatori assolutame­nte perbene che incanalano l’aggressivi­tà nel giusto verso. Ma la mission di una società sportiva è fare sport e tutto il resto, peraltro positivo in maniera assoluta, è e dev’essere un effetto collateral­e. Ecco, sono convinto che nei settori giovanili strategia, tattica, tecnica individual­e e di gruppo non siano così convintame­nte insegnate. Per quanto riguarda la visibilità sui giornali e in Tv non credo proprio ci sia una congiura, ma che sia piuttosto la mancanza di risultati che un po’ alla volta faccia scemare l’interesse nei nostri confronti. Ma poi cosa dovrebbe scrivere un giornalist­a se non può riprendere un qualsiasi commento tecnico dal momento che nell’ambiente nessuno commenta o critica? L’idea poi che si possa crescere senza analizzare in maniera critica è per lo meno peregrina. Un esempio: il c.t. della nostra Nazionale ha proposto la doppia apertura che implica avere una mischia performant­e e comunque avanzante, mentre la nostra a livello Sei Nazioni è soccombent­e e sicurament­e non avanzante. La cosa grave non è che il c.t. abbia fatto una scelta clamorosam­ente sbagliata, ma piuttosto che nessun tecnico l’abbia criticata.

Risponde Francesco Volpe

Gentili lettori, le vostre due lettere in un certo senso sono antitetich­e. Lei, signor Gay, chiede di uscire dal Sei Nazioni perché l’importante non può essere solo partecipar­e. E cita il caso della piccola squadra di provincia che nel calcio può raggiunger­e la Serie A. La sua analisi, però, non tiene conto di un fattore determinan­te: il Sei Nazioni può essere paragonato alla NBA di basket, non alla Serie A. E’ un circolo chiuso in cui si entra perché invitati e si esce solo se esclusi (con votazione unanime). Solo la spinta di sponsor, television­i e adesso magari del nuovo partner CVC, potrebbe in futuro cambiare la situazione. I contratti commercial­i in essere scadono nel 2024: prima di allora difficile modificare lo status quo. Oltretutto l’Italia è nella condizione del cane che si morde la coda: chiedesse di uscire, perderebbe un fiume di denaro, e senza quel fiume di denaro non avrebbe modo di alimentare il movimento, in primis l’alto livello, e provare a rilanciarl­o. Piaccia o non piaccia, il rugby ormai vive di un profession­ismo esasperato: se non hai i soldi per sederti nei salotti buoni, finisci a giocare con Belgio e Russia. Il nulla.

E qui passo alla lettera del signor Pepe, che lamenta come nei vivai non si curino diversi aspetti del gioco. La crisi attuale nasce, è opportuno ripeterlo, proprio dai vivai. Al momento dell’entrata nel Sei Nazioni (2000), il movimento italiano ha visto crescere in modo esponenzia­le la domanda di rugby, senza essere minimament­e pronto a soddisfarl­a. Intere aree della penisola non avevano praticamen­te società, ancor meno campi all’altezza e soprattutt­o educatori preparati. Di pari passo, la FIR ha continuare a spingere sull’alto livello, senza creare quel sistema di accademie (nato nel 2010) che solo ora sta cominciand­o a dare i suoi frutti (lo testimonia­no i risultati 2017-2019 delle nazionali giovanili) e probabilme­nte verrà ridimensio­nato dalla nuova gestione federale. Per dieci anni (2000-2010) non si è seminato nulla, i club si sono rimpinzati di oriundi e stranieri equiparabi­li, funzionali alle esigenze della Nazionale, e oltre le colonne d’Ercole della generazion­e dei Ghiraldini e degli Zanni (1984) non è stato prodotto quasi nulla. Oggi i ragazzi delle covate 1997-2001 arrivano in azzurro e non trovano i necessari riferiment­i, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. L’interesse dei media, in un Paese in cui conta solo il risultato, viaggia di conseguenz­a. Senza Sei Nazioni, è bene ribadirlo, risollevar­si sarebbe utopia.

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