De Bruyne, ma ti servivano gli algoritmi?
A29 anni, Kevin De Bruyne è il più forte tuttocampista d’Europa: e oltre, probabilmente. Nel sostanzioso rinnovo del contratto, discusso con i dirigenti del Manchester City, mi ha stuzzicato il ricorso a un team di analisti che ne suffragasse l’acclarata influenza nello sviluppo tattico della squadra, il cui allenatore è Pep Guardiola, entità al di sopra di ogni tabella. Quali “grafici” più efficaci delle sue narrazioni, quale “distinta” più seducente delle sue coccole?
In un mondo in cui gli statistici sono venerati alla stregua di statisti, sorge spontanea una domanda: per documentare e riaffermare la centralità dell’eclettico belga era proprio necessario farsi scortare da una ronda di cifre? La quantità non pesa il carisma che è spirito, non materia. La personalità esula dalle lavagne, sorvola i ruoli, il talento: spesso, più che le urla dei computer, aiutano i silenzi dell’anima. Adesso che il dato è tratto, mi piace pensare a una prova di onestà intellettuale da parte del giocatore stesso: verba volant, scripta manent. Traduzione: fatti, non parole.
Ecco: non vorrei che, avanti di questo passo (e di questi algoritmi), il calcio diventasse uno sport fin troppo schematico, freddo, automatico. O semi-automatico come il nascente fuorigioco, di cui, sinceramente, non ho capito una mazza. Si deve a Gregg Easterbrook, scrittore statunitense, una massima che andrebbe appesa ai muri di tutti gli spogliatoi: «Se torturi i numeri abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa».
De Bruyne, lui, non ha avuto bisogno di violentarli. Persino il garzone della bottega all’angolo, immagine cara a Giuseppe Pistilli, maestro di giornalismo, lo avrebbe accreditato di una incidenza superiore alla media. Voce dal fondo: al tempo, è sempre meglio essere precisi, toccare con mano, alla San Tommaso. A patto di non esagerare. La modernità del football non si profana o non si scalfisce con un impiego più casto dell’incontinenza scientifica. Prendete i picchi di Bayern-Paris Saint-Germain, mercoledì scorso in Champions. Un inno ai cannibali di Hans-Dieter Flick: 61% a 39% nel possesso palla, 31 a 6 nei tiri, 15 a 1 nei corner. A basket, avrebbero stravinto i tedeschi almeno di venti. A calcio, è finita 3-2 per i francesi.
Gli analisti grideranno al caso cinico e raro. Non dategli retta. Se a Mauricio Pochettino mancavano fior di titolari (i terzini, Marco Verratti, Leandro Paredes, Mauro Icardi) ma nessun fuoriclasse, gli avversari erano privi di Robert Lewandowski, che però è un fuoriclasse. Potrei aggiungervi la doppietta di Kylian Mbappé e gli assist di Neymar - l’uno, erede designato dei due Ronaldi, il fenomeno e Cristiano; l’altro, se non a quei livelli, neppure così lontano - ma qui si rischia di falciare, in un colpo solo, un esercito di nerd. Per tacere del sabato di Atalanta-Juventus 1-3 dell’ultimo campionato, quando dagli schermi di Sky ci fecero sapere che, secondo una certa qual fonte, specializzata e qualificata, sino all’uno pari la Dea avrebbe meritato di trovarsi in vantaggio per 2,7 a 1,2. Ma no: ci voleva la Nasa?