Lucho solitario
Un allenatore incomprensibile che ha vinto solo con un Barça stellare ma rinunciando al suo calcio. Un hombre stucchevolmente vertical che fedele all’Idea ha privato la Spagna di Sergio Ramos, il suo leader Un asceta tutto ossa sudore e devozione alla ca
Cosa manca alla Spagna di Luis Enrique? Un vero leader. Dove starà domani sera Sergio Ramos, mentre i suoi compagni a Wembley cercheranno di non farsi spolpare dalle anime forti della tribù famelica oltre che mamelica? A casa.
L’esperienza complicata in giallorosso I successi con il Barcellona La nazionale e il lutto atroce
Nove i titoli in blaugrana grazie a Neymar Messi e Suarez
A Roma un incubo: soltanto un anno chiuso all’insegna della derisione
La morte della figlia Xana di nove anni è stata affrontata con enorme dignità
Cosa manca alla Spagna di Luis Enrique? Un vero leader. Dove starà domani sera Sergio Ramos, mentre i suoi compagni a Wembley cercheranno di non farsi spolpare dalle anime forti della tribù famelica oltre che mamelica? A casa, in pantofole, sul divano a girarsi pollici e a grattarsi le ascelle. E a farsi domande malinconiche del tipo: che ci faccio io qui? Dove starà, invece, Giorgio Chiellini, l’analogo azzurro di Ramos, meno avvenente esteticamente e tecnicamente ma non meno cazzuto? In campo a Wembley, nemmeno a dirlo, con la fascia di capitano a mordere le caviglie di Morata e chiunque con quel naso che non è un naso ma un becco rapace che scava negli avversari falle enormi e frustrazioni indicibili (Suarez che lo morde al collo è la ribellione speculare del “chi di morso ferisce di morso perisce”, ma anche del “morso tuo, vita mia”). Insomma, una Roja amputata, con questo Sergio di meno, il Sergio che conta. L’altro, Busquets, c’è, è il leader tecnico, fondamentale si capisce, ma se vai alla guerra il Sergio che ti devi portare dietro sempre, il primo della lista, è il centrale madridista, centrale in ogni senso possibile. Il “cattivo” che non si fa scrupoli a togliere di mezzo Momo Salah con un atto di chirurgica malvagità calcistica nella finale che vale una vita. Il fido scudiero che José Mourinho porterebbe con sé, insieme a Ibra, a Terry e a pochi altri, il giorno in cui dovesse scendere all’inferno per mozzare la coda al diavolo. Lucho obietta da par suo che Ramos ha giocato pochissimo, non è in condizione. Vero ma, allo stesso tempo, ridicolo. Chiedete a Roberto Mancini, ma non c’è bisogno di farlo, se sarebbe mai disposto a rinunciare al suo Ramos pisano dal grande naso. Forse con una gamba in meno, ma non è detto.
È quello che manca da sempre a Luis Enrique per essere un allenatore credibile. Lasciare a casa ogni tanto se stesso, invece che i Sergio Ramos di turno. Essere “hombre” sì, ma non così sempre così stucchevolmente “vertical”. Di essere un po’ meno schiavo delle sue idee. Come, in fondo, gli è capitato nelle stagioni del Barça dove si porta a casa nove titoli, il totale di quello che ha vinto in carriera, ma vistosamente rinunciando alla sua idea di calcio, palla a terra, possesso, fraseggio infinito, destrutturazione dei ruoli. Sintesi brutale. Il Lucho negato è l’unico Lucho vincente della storia.
«Avete visto che non era poi così scemo…», rivendicò Daniele De Rossi che lo ha avuto un anno alla Roma, subendone il diktat integralista ma apprezzandone comunque la lealtà frontale. Facile, replicano i detrattori di
Luis Enrique, non sembrare scemi quando hai davanti tre come quei tre, Messi, Suarez e Neymar, uno spropositato buco nero di talento che attira e inghiotte tutto, incluse le ideuzze di un Luis Enrique qualunque. Che, infatti, si tiene i trofei in bacheca, ma, leale com’è, se ne guarda bene dall’inorgoglirsi più di tanto, fingendo che sia farina del suo sacco. Soprattutto rivedendo, nel suo specchio leale, il film di quel Barcellona-Paris Saint Germain dove, ormai fuori di brutto dalla Champions, viene esclusivamente salvato dai sette minuti di fenomenite dei suoi. Nel mucchio blaugrana che esulta, alla fine, c’è anche lui, lealmente arrossendo.
Detto che Lucho è tutto meno che scemo, detto che la lealtà è una bellissima virtù, di cui il nostro abbonda, bisogna anche capire di cosa sia al servizio questa lealtà, se di una causa ragionevole o assurda. Tenere a casa Ramos (e aggiungo anche Nacho, uno dei migliori difensori in stagione della Liga) è una scelta assurda. Punto. Sportivamente parlando ci auguriamo che il nostro Lucho sia da domani sera pieno di lividi e rimorsi. Difficile, conoscendolo. Dovesse andargli male, pur di non fare un’espiazione pubblica davanti all’odiata stampa madridista, partirà per l’ennesima spedizione nel deserto in mezzo agli scorpioni, dove curare lo stress e ritemprare l’anima.
Noi l’abbiamo conosciuto bene Luis Enrique a Roma. Marziano rimasto tale, anche dopo il passaggio di un anno. L’abbiamo atteso, studiato, persino amato prima di sfinirlo e ridurlo, l’asturiano tutto d’un pezzo, a una macchietta nel massacro puntuale delle stroncature e della derisione. Avendolo ribattezzato prima “Zichichi” per le sue posture da scienziato e poi “scucchione” per il suo mento pronunciato. Rivedetelo alla fine del suo viaggio romanista, consunto nel corpo e nella psiche, imbiancato nella testa. Scavato in volto e nell’anima. In fuga da Roma, come si scappa da un brutto sogno. Lui non scappò, scoppiò, dopo solo un anno di Roma, un anno di troppo. Chi si ricorda oggi della struggente innocenza dei suoi primi editti a Trigoria?
La verità è che un uomo come Luis Enrique e una città come
Roma furono una pessima idea partorita da un’anima bella, quella di Franco Baldini. I due, Enrique e la Roma, sono fatti apposta per evitarsi, per non incontrarsi mai, se non a prezzo di una delusione feroce. Che, nel caso del Lucho, diventò sofferenza atroce. In una casa, come quella giallorossa, ai tempi degli esordi americani su piazza, che già bruciava di suo per un’addizione stereoscopica di sfondoni. Ma davvero qualcuno ha potuto pensare, e io sono tra quelli, che potessero convivere più di mezza giornata nello stessa gabbia un asceta tutto osso, sudore e devozione alla causa come Luis Enrique e una scettica divinità dai fianchi matronali come è Roma? Un calvario.
Niente di paragonabile a quello che la vita gli riserverà. Luis Enrique, gli va riconosciuto, è uno dei pochi allenatori al mondo in cui difficilmente puoi scindere l’uomo dall’allenatore. L’integrazione delle due persone è assoluta, ancora più dell’integrità dell’uomo. L’atroce perdita di Xana, l’amatissima figlia, per un cancro fulminante ci ha ricordato quanto grande e dignitoso è l’uomo. Al cospetto di un dolore che non ha parole possibili. Nel vederla quella bellissima bambina di nove anni, sorridente, sulle spalle del padre, e saperla non più al mondo. “Riposa in pace”, la salutò il padre affranto. E ditemi chi hai mai scritto prima o dopo una frase più bella. Luis Enrique resta forse un allenatore incomprensibile ma l’uomo, giuro, è di una grandezza unica e solare.