Corriere dello Sport

Il timbro difensivis­ta che assilla l’Italia

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Perché è sempre, o quasi, l’aspetto difensivo a orientare la mira al petto dei nostri successi? Nonostante Roberto Mancini abbia restituito l’Italia ai vertici d’Europa, con un inno al gruppo che ha sedotto persino i più cocciuti spasimanti dell’Io, l’oscar del miglior giocatore è stato attribuito al portiere: Gigio Donnarumma. E occhio: miglior giocatore del torneo. Non di una singola squadra o della squadra regina.

Nel 2006, quando la nazionale di Marcello Lippi si laureò campione del mondo a Berlino, con i cupi rintocchi di Calciopoli a scandirne la marcia, il Pallone d’oro premiò una sentinella vecchio stile, Fabio Cannavaro, e, a ruota, un altro portiere: Gigi Buffon. Nel caso, fresco fresco, degli azzurri manciniani, proprio dalla giuria di «France Football» il popolo attende un congruo rimborso: si parla di Jorginho, in antitesi a Leo Messi, capace di trasformar­e un incubo (la stagione del e col Barcellona) in estasi: la Coppa America, primo trofeo alzato nell’Argentina e per l’Argentina. Anche se, a onor del vero, l’hombre del partido, con il Brasile e oltre, era stato Rodrigo De Paul.

Non c’è gara che l’Italia «itinerante» non abbia cercato di vincere. E là dove ha sofferto - un po’ con l’Austria, abbastanza con il Belgio, molto con la Spagna, solo all’inizio e agli sgoccioli con gli inglesi - vi è stata costretta, non l’ha fatto per scelta. Né catenaccia­ri erano i «lippanti»: non aver subito nemmeno un gol su azione in sette partite fu un merito, non un indizio. Il diario di bordo racconta di un’autorete (Cristian Zaccardo pro Stati Uniti) e del rigore di Zizou. Erano più forti, questo sì: penso a Francesco Totti, che pure al massimo non poté giocare, e alla sua «riserva», Alessandro Del Piero. Cinque vittorie e due pareggi, lo stesso bottino dell’ultimo safari. Con i triboli francesi e lo squillo di Dortmund, la Germania sconfitta in un turbinio di emozioni, ad agitare l’eterno dibattito tra gli estremisti dell’avanti Savoia e dell’adelante con juicio.

Un problema di centravant­i, forse? Luca Toni si fermò alla doppietta ucraina, due squilli come Marco Materazzi, lo stopper. Ciro Immobile ha segnato a Turchia e Svizzera. Chissà, senza il grave infortunio sarebbe stato in lizza Leonardo Spinazzola, splendida e frizzante prolunga del «tedesco» Fabio Grosso. Ognuno, a modo suo. Terzini-ala, certo: ma più ali che terzini.

Nessun dubbio che Donnarumma abbia parato bene e dato sicurezza ai reparti, per quanto un penalty, nella semifinale, l’avesse murato anche Unai Simon e due, nella finale, addirittur­a Jordan Pickford. Rimane, con tutto il rispetto, il timbro di un «difensivis­mo» che, oggettivam­ente, ci sfugge. Sembra un paradosso: più ci sporgiamo e attacchiam­o, più ci incoronano le trincee.

Così non fu nel 1982, in Spagna. Paolo Rossi mise d’accordo il mondo. Era il branco rabbioso di Enzo Bearzot, simbolo, per i più gretti, di un calcio antico se non antiquato. Come valori, non c’è paragone fra le tigri del Bernabeu e i leoni di Wembley. E comunque, al di là di Pablito domatore degli attimi: por qué?

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Gigio Donnarumma, miglior giocatore dell’Europeo

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