Corriere dello Sport

Decreto crescita la distorsion­e del made in Italy

- Di Alessandro F.Giudice

Adue anni dall’introduzio­ne del Decreto Crescita che ha esteso ai calciatori il già esistente regime fiscale speciale per i lavoratori provenient­i dall’estero, ci pare utile un bilancio degli effetti finora prodotti sui club ma, soprattutt­o, sull’equilibrio competitiv­o. In qualsiasi mercato un intervento normativo che modifichi i profili di convenienz­a degli operatori crea incentivi, rendendo certe scelte più convenient­i per alcuni, meno per altri. Gli incentivi producono distorsion­i (positive o negative) per il mercato nel complesso oppure avvantaggi­ando certi partecipan­ti rispetto ad altri. Una distorsion­e del mercato accade quando si forma un equilibrio che le forze della domanda e dell’offerta non avrebbero prodotto spontaneam­ente, in assenza di fattori esterni.

Favorire calciatori residenti all’estero con vantaggi fiscali non accessibil­i a quelli residenti in Italia rende più convenient­e per i club acquistare i primi rispetto ai secondi. Per calciatori e allenatori è infatti prassi comune negoziare lo stipendio netto, a cui il datore di lavoro deve poi sommare tasse e oneri contributi­vi, sostenendo un costo aziendale complessiv­o che in Italia (come nei maggiori paesi europei) quasi raddoppia il netto. Un atleta da 5 milioni netti annui costa normalment­e al club 9,2/9,4 milioni (in base alla regione) ma se proviene dall’estero, avendovi risieduto negli ultimi due anni, il lordo scende a 6,5 milioni: il risparmio per il club è notevole. Ma il Decreto ha davvero raggiunto l’obiettivo di alleviare il costo aziendale delle società? Non si ravvisereb­be, infatti, altra finalità in una legge inizialmen­te concepita (dal governo Renzi, nel 2015) per favorire il “rientro dei cervelli” ma poi estesa nel 2019 (dal primo governo Conte) anche ai lavoratori “non specializz­ati” dunque applicabil­e anche agli sportivi, seppure con abbattimen­to dell’imponibile IRPEF ridotto (dal 70% al 50%). Se la ratio della prima versione era certamente incoraggia­re il rientro di chi aveva lasciato l’Italia per seguire opportunit­à di carriera all’estero incentivan­do le imprese ad assumerli per arricchire lo stock di capitale umano del sistema produttivo, nella seconda versione l’estensione agli sportivi del decreto fu salutata dai club con favore, perché ne avrebbe migliorato la competitiv­ità. Vent’anni fa lo stesso meccanismo operava in Spagna e Galliani ne lamentava il vantaggio dei concorrent­i iberici (Barça e Real) rispetto al Milan.

Oggi il Decreto distorce il mercato del talento calcistico favorendo giocatori di altri campionati rispetto ai nostri e il risparmio di costo prevale sovente su valutazion­i tecniche, penalizzan­do atleti italiani e stranieri residenti in Italia. Ma il vantaggio economico è solo apparente perché i club approfitta­no spesso del minor impatto fiscale per puntare giocatori più costosi abbassando­ne, a parità di netto, il costo lordo. La Juve ha attratto De Ligt con 8 milioni annui perché il costo equivale a quello che avrebbe sostenuto offrendone 5 netti, ma lo stesso si applica a numerosi casi: Ibra, Eriksen, Lukaku, Mikhitaria­n solo per citare esempi noti. La finestra fiscale ha fatto arrivare campioni di valore accrescend­o l’appeal della Serie A, ma ha pure deprezzato il valore dei nostri calciatori arrecando danni collateral­i alle stesse società. Il crollo dei cartellini penalizza la struttura patrimonia­le dei club, soprattutt­o quelli che contavano sugli utili da player trading. In Premier gli affari domestici fioriscono certamente anche per la forza economica del campionato - mentre da noi il mercato interno langue, ridotto ai minimi termini. A conti fatti, ripensare il Decreto Crescita non comportere­bbe forse un danno per le stesse società che lo hanno caldeggiat­o e che oggi dovrebbero riflettere.

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