Decreto crescita la distorsione del made in Italy
Adue anni dall’introduzione del Decreto Crescita che ha esteso ai calciatori il già esistente regime fiscale speciale per i lavoratori provenienti dall’estero, ci pare utile un bilancio degli effetti finora prodotti sui club ma, soprattutto, sull’equilibrio competitivo. In qualsiasi mercato un intervento normativo che modifichi i profili di convenienza degli operatori crea incentivi, rendendo certe scelte più convenienti per alcuni, meno per altri. Gli incentivi producono distorsioni (positive o negative) per il mercato nel complesso oppure avvantaggiando certi partecipanti rispetto ad altri. Una distorsione del mercato accade quando si forma un equilibrio che le forze della domanda e dell’offerta non avrebbero prodotto spontaneamente, in assenza di fattori esterni.
Favorire calciatori residenti all’estero con vantaggi fiscali non accessibili a quelli residenti in Italia rende più conveniente per i club acquistare i primi rispetto ai secondi. Per calciatori e allenatori è infatti prassi comune negoziare lo stipendio netto, a cui il datore di lavoro deve poi sommare tasse e oneri contributivi, sostenendo un costo aziendale complessivo che in Italia (come nei maggiori paesi europei) quasi raddoppia il netto. Un atleta da 5 milioni netti annui costa normalmente al club 9,2/9,4 milioni (in base alla regione) ma se proviene dall’estero, avendovi risieduto negli ultimi due anni, il lordo scende a 6,5 milioni: il risparmio per il club è notevole. Ma il Decreto ha davvero raggiunto l’obiettivo di alleviare il costo aziendale delle società? Non si ravviserebbe, infatti, altra finalità in una legge inizialmente concepita (dal governo Renzi, nel 2015) per favorire il “rientro dei cervelli” ma poi estesa nel 2019 (dal primo governo Conte) anche ai lavoratori “non specializzati” dunque applicabile anche agli sportivi, seppure con abbattimento dell’imponibile IRPEF ridotto (dal 70% al 50%). Se la ratio della prima versione era certamente incoraggiare il rientro di chi aveva lasciato l’Italia per seguire opportunità di carriera all’estero incentivando le imprese ad assumerli per arricchire lo stock di capitale umano del sistema produttivo, nella seconda versione l’estensione agli sportivi del decreto fu salutata dai club con favore, perché ne avrebbe migliorato la competitività. Vent’anni fa lo stesso meccanismo operava in Spagna e Galliani ne lamentava il vantaggio dei concorrenti iberici (Barça e Real) rispetto al Milan.
Oggi il Decreto distorce il mercato del talento calcistico favorendo giocatori di altri campionati rispetto ai nostri e il risparmio di costo prevale sovente su valutazioni tecniche, penalizzando atleti italiani e stranieri residenti in Italia. Ma il vantaggio economico è solo apparente perché i club approfittano spesso del minor impatto fiscale per puntare giocatori più costosi abbassandone, a parità di netto, il costo lordo. La Juve ha attratto De Ligt con 8 milioni annui perché il costo equivale a quello che avrebbe sostenuto offrendone 5 netti, ma lo stesso si applica a numerosi casi: Ibra, Eriksen, Lukaku, Mikhitarian solo per citare esempi noti. La finestra fiscale ha fatto arrivare campioni di valore accrescendo l’appeal della Serie A, ma ha pure deprezzato il valore dei nostri calciatori arrecando danni collaterali alle stesse società. Il crollo dei cartellini penalizza la struttura patrimoniale dei club, soprattutto quelli che contavano sugli utili da player trading. In Premier gli affari domestici fioriscono certamente anche per la forza economica del campionato - mentre da noi il mercato interno langue, ridotto ai minimi termini. A conti fatti, ripensare il Decreto Crescita non comporterebbe forse un danno per le stesse società che lo hanno caldeggiato e che oggi dovrebbero riflettere.