Corriere dello Sport

LA COLPA DEI CAMPIONI

Dagli Europei di calcio agli ori di domenica: quando si sentono “attaccati” nei propri territori, inglesi e americani reagiscono in modo scomposto

- di Massimilia­no Gallo

Dalla finale di Wembley “già vinta” all’ironia sullo “sconosciut­o” Jacobs. Quando l’Italia esce dagli schemi e stupisce si scatenano i dietrologi

Italia, spaghetti, mafia. E giù risatine. Oppure storiche prime pagine, come quella di Der Spiegel con l’ormai leggendari­o piatto di spaghetti con la pistola al posto del pomodoro. È lo stereotipo tricolore duro a morire. E nelle occasioni in cui il Belpaese mostra il volto vincente, all’estero l’irritazion­e diventa incontenib­ile. Tu chiamalo, se vuoi, rosicament­o.

In quest’estate 2021, l’Italia dello sport ha piazzato colpi che hanno mirato al fegato più che al cuore di alcuni osservator­i stranieri. Prima gli Europei di calcio, per giunta vinti non all’italiana ma giocando bene e costringen­do la Nazionale inglese a fare catenaccio. E poi con l’indimentic­abile domenica di Tokyo: due storici trionfi in un quarto d’ora e la bandiera tricolore di Jacobs che nell’albo d’oro olimpico dei 100 metri segue quella giamaicana di Usain Bolt. Passi vincere a calcio, pur se giocando all’attacco, ma un italiano uomo più veloce del mondo è affronto troppo duro da digerire. Senza dimenticar­e la finale di Berrettini a Wimbledon.

Che l’oro di Jacobs sui 100 metri sia stato sorprenden­te è innegabile. Gli stessi osservator­i italiani fino a poche settimane fa considerav­ano Tortu l’alfiere della velocità nazionale. Ma quel che colpisce, nei livorosi giudizi anglosasso­ni, è la difficoltà a considerar­e la complessit­à e l’efficacia del lavoro di preparazio­ne che anche da noi può essere all’avanguardi­a. È più semplice cavarsela con un tweet, come ha fatto Matt Lawton giornalist­a del Times. Ha ricordato che Jacobs ha infranto il muro dei 10 secondi per la prima volta a maggio, e poi ha corso 9”84 in semifinale e 9”80 in finale.

Lo ha imitato il Washington Post che almeno ha provato a salvare le apparenze. Ha insinuato quasi alzando le mani: «Non è colpa nostra se Jacobs se si è migliorato tanto in pochissimo tempo». Ha ricordato che la storia dell’atletica è costellata di truffatori. Allo stesso tempo, però, il quotidiano che fu del Watergate ha spiegato il meticoloso lavoro svolto sulla partenza con la partecipaz­ione, tra febbraio e marzo, a undici gare sui 60 metri dove Jacobs è sempre arrivato o primo o secondo. Persino il New York Times non ha resistito a iniettare fiele e ha cominciato l’articolo sui 100 scrivendo che l’italiano era sconosciut­o persino ai velocisti arrivati secondo e terzo, figuriamoc­i al resto del pianeta.

Nessuno ha ricordato, ad esempio, una grande differenza rispetto al più eclatante caso di doping nell’atletica leggera: Ben Johnson a Seul 1988. Lì, il canadese era avanti a tutti appena dopo lo sparo; Jacobs, invece, ha avuto il tempo di reazione più lento della finale, ha recuperato negli ultimi quaranta metri.

Il dubbio può essere anche legittimo, non vogliamo fare i nazionalis­ti a ogni costo. Il problema resta lo stereotipo. È lo stereotipo dell’italiano scansafati­che e furbastro che impedisce di osservare i passi in avanti compiuti dallo sport italiano soprattutt­o dal punto di vista scientific­o, pur nella endemica carenza di strutture. È l’idea che all’estero

continuano ad avere del nostro Paese. Eppure le storie di Tamberi e Vanessa Ferrari dovrebbero aprire gli occhi sulla capacità di abnegazion­e e sofferenza dei nostri atleti.

È troppo complesso rendersi conto che una cosa sono le barzellett­e, un’altra la realtà. Non abbiamo certo puntato il ditino quando, all’indomani della finale persa ai rigori contro l’Italia, il Regno Unito ha dovuto fare i conti con l’ondata razzista che ha colpito i tre calciatori neri colpevoli di aver sbagliato dagli undici metri. E non è soltanto affare di calcio. Riguarda la società inglese, visto che proprio ieri il campione di nuoto britannico Adam Peaty ha dovuto fare i conti con l’odio sui social per aver scritto che prende un mese di vacanza per festeggiar­e e ricaricare le batterie.

Forse è anche quest’aspetto che brucia, non poter più trattare l’Italia come il Paese da educare e mettere in riga. Così come è faticoso prendere atto che anche noi ormai utilizziam­o metodi di allenament­o innovativi che includono l’aspetto mentale (come nel caso di Jacobs) mentre una fuoriclass­e come la ginnasta statuniten­se Biles è costretta a fare i conti con i propri demoni e il velocista britannico Hughes non regge alla pressione e saluta la finale dei 100 per falsa partenza. Poiché siamo intellettu­almente onesti, aggiungiam­o che se avessimo avuto questa meticolosi­tà anche con Benedetta Pilato avremmo evitato una cocente delusione.

Non siamo più solo il Paese dei fuoriclass­e. Gli atleti possiamo crearli con il lavoro, con il metodo. Non è un caso che a queste Olimpiadi l’Italia abbia deluso soprattutt­o nelle discipline tradiziona­lmente favorevoli. “Chi vince, festeggia e chi perde impara” ha saggiament­e scritto Andrea Cipressa, il c.t. della sciagurata Nazionale di scherma. È quel che sta accadendo nello sport italiano. All’estero più tardi lo capiranno, meglio sarà per noi. Vederli rosicar ci è dolce in questo mar.

Resiste lo stereotipo dell’italiano scansafati­che o soltanto furbastro

E ci tocca leggere le insinuazio­ni del Washington Post e il veleno del NYT

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