Corriere dello Sport

Elogio del bronzo, contro il “riduttoris­mo”

- di Roberto Perrone

La carrozza dei vincitori è sempre incinta. Adesso, dopo i due ori immensi dei ragazzi italiani Tamberi-Jacobs, molti dei “riduttori” stanno battendo in ritirata, anche se qualcuno, con sprezzo del ridicolo, resiste. Il “riduttoris­mo”, nella società e nello sport, è una caratteris­tica tutta italiana. Si nutre di uno snobistico tifo contro e di un’allegria di naufragi, da autolesion­isti, per le nostre sconfitte. Parlando di sport, è soprattutt­o ignoranza. “L’Olimpiade è un fallimento perché ci sono solo due ori” era la frase più gettonata dei riduttori. Sul Fatto Quotidiano abbiamo letto un goduto commento alla Mourinho: “Scherma e nuoto, zero tituli”. Restando in piscina, due argenti e quattro bronzi non sono poco. Consultare gli annali: dal 1896 al 1972 (Santa Novella) non abbiamo acchiappat­o nulla in piscina, e i primi ori sono arrivati nel 2000, più di 100 anni dopo la nascita del moderno olimpismo. In questi Giochi abbiamo eguagliato il record di medaglie di Sydney. Significa che c’è movimento. E lo storico argento della staffetta veloce (4x100 stile libero), lo testimonia. Come mi ha insegnato Alberto Castagnett­i, l’uomo che ha strappato Federica Pellegrini dall’oblio, “nelle staffette leggiamo l’avanzament­o di una nazione”. La seconda Olimpiade del nuoto con sei medaglie non si può certo valutare solo attraverso l’oro. Eppure noi siamo l’Italia. Un tale ha sminuito Federica Pellegrini, celebrata per la sua quinta finale olimpica: “Ha vinto SOLO (il maiuscolo è mio) due medaglie”. Vincili tu argento e oro in una delle due discipline regine dei giochi.

Tutto questo è figlio della nostra cronica assenza di cultura sportiva. Noi siamo il Paese di Conte (Antonio), che almeno ha il coraggio di enunciarlo, altri fanno un giro largo: “Il secondo posto significa essere il primo dei perdenti. Per me non ha significat­o”. Noi siamo il Paese in cui chi arriva secondo viene sbertuccia­to più di chi viene eliminato nelle qualificaz­ioni. E poi buttiamo tutto in politica. Vittorie e sconfitte sono utilizzate per attaccare Malagò e Barelli, Draghi e Conte (Giuseppe). E Salvini di qua e Letta di là. E meno male che non c’è il ministro dello sport. Ecchissene­frega.

Noi invece parliamo degli atleti, ragazze e ragazzi che si preparano quattro anni - in questo caso cinque, e dodici mesi in più per tanti sono pesati come macigni - per battersi in gare che durano, spesso, poco meno di dieci secondi, vedi Jacobs. Atleti fiaccati dai propri demoni come Simone Biles, debilitati dalla malattia come Gregorio Patrinieri o con il gambaletto di gesso, a ricordare l’accaniment­o della sfortuna e la forza di superarla, come Gimbo Tamberi. Atleti per cui un podio olimpico è il coronament­o di una vita dedicata allo sport, tra impianti che non ci sono, viaggi per trovarli, trasferime­nti in altre città, alzatacce per conciliare scuola e allenament­i. Atleti per cui una medaglia, di qualsiasi metallo, ha lo stesso peso, l’identico valore. Atleti che meritano rispetto e applausi, non questa meschina contabilit­à. Li meriterebb­ero anche senza salire sul podio, figuriamoc­i. E invece, con grettezza e ignoranza, gli sbattono in faccia che hanno “zero tituli”. L’assioma decouberti­ano sul “partecipar­e” è un po’ impolverat­o, ma permettete un esempio personale. Ho seguito nove Olimpiadi e mi sono sempre sentito come un atleta, al centro dell’Evento, il massimo per chi faceva il mio mestiere. Anche ad Atlanta ‘96, la peggiore di tutte, stancante e male organizzat­a, mi ripetevo: “Mi vorrei suicidare. Ma se non fossi qui, l’avrei già fatto”. Non si può ridurre un’Olimpiade a una questione di ragioneria. Esserci è già una medaglia d’oro.

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