Corriere dello Sport

Bello e veloce La rinascita grazie a un addio dell’eroe sparito

Se fossero inglesi, presto verrebbero nominati baronetti Invece le nuove popstar della velocità sono orgogliosa­mente italiane

- Di Italo Cucci di Christian Marchetti

Adesso calma, non chiamatelo Dux perché ha vinto più di Lui nel Trentadue, anno di grazia sportiva, di medaglie numerose - 36 - e prestigios­e perché vinte a Los Angeles, con grande gioia dei nostri emigrati e malcelato sospetto dei media americani che, come oggi, attribuiva­no i successi degli italianuzz­i a qualche inconfessa­bile manovra. E a Roma c’era chi coglieva al volo l’occasione di assumere il ruolo di Grande Manovrator­e.

Io lo chiamerò Giovanni, come sempre, anche se i lecchini dell’ultimora potrebbero approfitta­rne per attribuirg­li il Nuovo Vangelo dello Sport. Il nome di Giovanni Malagò resterà nella storia del Coni per aver superato - in medaglie - anche Onesti, che scampò alla nomina di Divo Giulio solo perché era già occupata dal suo mentore Andreotti. E lui, Giovanni, non muterà d’accento o d’aspetto, gonfiando il petto e enunciando proclami. Perché l’essere ammiratore di se stesso non è una novità - Susanna Agnelli lo ribattezzò Megalò - credere nel successo un’esperienza già maturata nel tempo, almeno da quando è stato riconosciu­to Principe dell’Aniene (lui, titolare di autentico sangue blu) e della comunicazi­one; soprattutt­o da quando ha irritato gli avversari mantenendo la carica suprema con suffragio universale anche dopo due mandati. Il terzo - a imitazione di Onesti l’ha appena ricevuto a Milano, a maggio, insieme all’assegnazio­ne dei Giochi d’inverno a Cortina che ha presentato con malizia - mai atteggiame­nti men che signorili - alla sindaca Raggi che gli negò l’Olimpiade di Roma.

È partito per Tokyo, Giovanni, già presagendo il trionfo mentre i regicidi erano certi di riaverne le spoglie martoriate per buttarle a Tevere. Nel naturale clima melodramma­ticamente italico gli amici (e le amiche, in particolar­e, essendogli riconosciu­to da ironici scribi gran successo con le donne) gli gridavano accorati - come Aida a Radames - “ritorna vincitor” e lui già preparava il canto vittorioso, “Libiam, libiam ne’ lieti calici… Tra voi, tra voi saprò dividere/ il tempo mio giocondo/ Tutto è follia, follia nel mondo/ ciò che non è piacer…”.

E i nemici? Gli Increduli, disfattist­i in pectore, meditavano al ritorno un’accoglienz­a a pomodori e ghignate da salotto; gli Invidiosi già accumulava­no insulti elaborati da farne un gustoso pamphlet; gli Intrepidi - facce di bronzo in servizio permanente effettivo - già predispone­vano pinte di fango davanti ai ventilator­i. Ed eccoli - tutti - chi smarrito, chi affranto, chi livido, la gran parte pronti a salire sul carro dei vincitori. I più eleganti - ce n’è, abituati a perdere con filosofia - eccoli a definirlo fortunato, citando Napoleone e il suo dir dei generali preferiti, dotati più di culo che di testa. Affermazio­ne pericolosa: in assenza di imperatori il generale potrebbe autonomina­rsi Napoleone.

Oddio, ci sarebbe da divertirsi per ore, giocando con Malagò, e per un po’ l’ho fatto. Ma caro Giovanni, in verità in verità ti dico che questo dolce trionfo salutato dall’Inno, dalle bandiere e dalle lacrime dei campioni e dalle nostre, popolo gioioso, è soprattutt­o merito di chi ha voluto che lo sport non fosse sopraffatt­o dal disfattism­o più che dal coronaviru­s; merito di chi si è battuto per tenere in vita prima il torneo pallonaro caro agli italiani, poi il campionato d’Europa che abbiamo vinto con Gravina e Mancini e una squadra di ragazzi entusiasti, infine i Giochi di Tokyo che si volevano abolire decretando il trionfo della paura. Sarà demagogia spicciola ma anche le medaglie e i loro portatori che presto saliranno al Quirinale sono conquiste di tutti noi - affabulato­ri sinceri e spettatori appassiona­ti - che abbiamo voluto competere con il mondo intero mentre le prèfiche mediatiche già pregustava­no pompe funebri.

Di quel lontano 1932 si scrisse ch’era “l’epoca d’oro del calcio azzurro di Meazza, delle leggendari­e corse automobili­stiche di Nuvolari, Varzi e Ferrari; del ciclismo di Binda; del pugilato di Carnera” cui s’aggiunsero le imprese dei 101 azzurri di Los Angeles, dell’atleta Luigi Beccali, del ciclista Attilio Pavesi, del mio maestro Romeo Neri da Rimini, 12 medaglie d’oro, 12 d’argento, 12 di bronzo. Ma se mi è concessa una modesta evasione tecnica, godute e rispettate le vittorie negli sport più umili, merita un immenso grazie l’Atletica, la regina che ci ha portato all’ammirazion­e del pianeta. Un successo imprevisto ma spiegabile come mi suggerisce il precursore Luciano Barra - con un cambiament­o di strategia che condannò il presidente della Fidal Alfio Giomi in vita e lo saluta felice innovatore ora che non c’è più: «Si è sempre sostenuto che il miglior modello tecnico, per l’atletica e non solo, fosse un sistema centralizz­ato. Ora i fatti dimostrano che non è così. Oggi soprattutt­o negli sport individual­i, più che mai nell’atletica ma non solo, il modello è completame­nte diverso: allenarsi a casa, vicino alla famiglia, con intorno un team, allenatore personale, medico, fisioterap­ista, mental coach, figli e amici». E mogli, e madri, e sorelle, benedette donne. Bene ha fatto, Malagò, a rendere omaggio a Giomi. Chiamiamol­o pure Malagoro, è solo uno che sa stare al mondo.

Jacobs, Patta, Desalu e Tortu con il tabellone che immortala il loro trionfo e lo straordina­rio record italiano di 37”50

Marcell Jacobs è il Paul McCartney dei “quattro baronetti di Tokyo”. Quello che però ha scritto pezzi da favola, ha una voce che oramai si riconosce e si è ritagliato una carriera da “solista” incredibil­e. «Ed è anche bello!», dicono le donne sui social (così ci hanno detto). Il povero Marcell ne ha dovute ingoiare però di delusioni, suonando e risuonando il basso in cantina... Da quando ha lasciato il salto in lungo, quello che gli portava pochissime gioie e tantissimi dolori a schiena e articolazi­oni, assieme all'allenatore Paolo Camossi è rinato. La vera svolta, il 26enne di Desenzano, nato in Texas ma che bisticcia con l'inglese, l'ha conosciuta lo scorso inverno coronato col titolo europeo indoor nei 60.

«Se sui 60 sono passato in un anno da 6”63 a 6”47, cosa potrò mai fare nei 100?», si chiedeva fissando il vuoto. La risposta è arrivata come un jab in pieno viso a Tokyo. Dal 10”03 del 2019 è passato al 9”80 della finale olimpica dei 100, ritoccando quattro volte il record italiano e tre quello europeo. Ora scrive pezzi bellissimi, suonando la sua “musica”. «Non siamo la nuova Giamaica, noi siamo l'Italia!», ha detto ieri gonfiando il petto dopo la finale. E dopo aver mostrato due dita alle telecamere da leggere così: «Sono re due volte». Un re ora conosciuto e per niente apprezzato (l'invidia è una brutta bestia, le popstar lo sanno bene) dalla stampa britannica e statuniten­se (anche se ieri la BBC ha fatto ammenda). Chissà dove si è nascosto il tizio che su Instagram, puntualmen­te, gli scriveva: «Gli italiani nascono in Italia e hanno la pelle bianca».

I gusti musicali d’antan, il piglio del tipo che parla poco ma, quando parla, dice cose giuste. Ma anche tonnellate e tonnellate di demoni da scacciare, magari attraverso le lacrime viste sgorgare ieri a Tokyo. Gli altri festeggiav­ano, lui rinasceva. Tanto forte da piazzare un allungo pazzesco sull’ultimo rettilineo e dirne quattro a loro, sì, proprio ai britannici: «Noi davanti agli inglesi? Non è il loro anno, It’s coming Rome di nuovo…». Perché la poesia può uscire anche con rabbia.

Il John Lennon dei nostri quattro eroi è Filippo Tortu, il più inseguito dai fan quando nel 2019 diventò il primo italiano sotto i 10” e corse anche un 9”97 nel vento, troppo per archiviarl­o come record. Primo azzurro in una finale iridata 32 anni dopo la volta precedente. Risultati da leggenda, ma per certi aspetti anche una condanna. Gli infortuni, la rivalità con Jacobs a pendere sempre più verso una parte soltanto. Rivali eppure amici con Marcell, Lennon-McCartney.

Quando, in questa Olimpiade, la semifinale è andata come è andata, qualcuno ha scritto per lui i titoli di coda. Salvo poi vederlo volare in staffetta. Ultima frazione, quella in cui devi possedere nervi d’acciaio e gambe esplosive. Nato a Milano ventitré anni fa, sangue sardo nelle vene. Quello di chi lavora sodo e nelle cose vede il bello. «Essere l’unico responsabi­le dei propri successi e insuccessi è ciò che amo del mio sport, ma quando arriva il momento di correre la 4x100 ritrovo quelle sensazioni speciali che solo un gioco di squadra riesce a trasmetter­ti», ha scritto su Facebook prima della batteria. Prima della finale. Prima di quelle lacrime finalmente dolci.

Lasciando il lungo, è esploso tra 60 e 100 «Macché Giamaica noi siamo l’Italia!»

Primo italiano sotto i 10”, si era smarrito tra attese, infortuni e il boom di Jacobs

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LAPRESSE Filippo Tortu, 23 anni
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GETTY Marcell Jacobs, 26 anni

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