Corriere dello Sport

Il prezzo di un braccio di ferro

- Di Alessandro Barbano

Se il braccio di ferro fosse una disciplina olimpica, l’Italia sarebbe tornata da Tokyo con undici medaglie d’oro e un campione in più: Aurelio De Laurentiis. Il presidente azzurro è uno specialist­a del non mollare mai. La sua tenacia alla lunga fiacca la resistenza dell’avversario, ma la vittoria talvolta ha un prezzo non previsto.

Se il braccio di ferro fosse una disciplina olimpica, l’Italia sarebbe tornata da Tokyo con undici medaglie d’oro e un campione in più: Aurelio De Laurentiis. Il presidente azzurro è uno specialist­a del non mollare mai. La sua tenacia alla lunga fiacca la resistenza dell’avversario, ma la vittoria talvolta ha un prezzo non previsto. È accaduto con Sarri, poi due anni fa con gli azzurri ammutinati. E adesso la storia si ripete con Insigne. Il capitano chiede quattro anni di contratto all’attuale stipendio di 5 milioni netti. DeLa non sembra disposto a offrirglie­ne più di tre a 4 milioni. L’accordo mancato non produrrà un divorzio immediato, ma una coabitazio­ne coatta tra separati per almeno dieci mesi, dopo i quali Lorenzo sarà sciolto da ogni vincolo.

Il capitano non ha in tasca un’offerta alternativ­a. Se non firma alle condizioni del club, dovrà comunque scommetter­e su un’altra stagione esaltante, sperando di strappare altrove condizioni migliori. Ma se Insigne non dovesse ripetersi, rischia di rimpianger­e l’offerta del Napoli, che adesso snobba.

Il ragionamen­to del presidente non fa una grinza. Ma non tiene conto del prezzo che ogni strategia di logorament­o comporta. E che nel calcio rischia di essere molto alto. Perché lo stato d’animo dell’atleta è decisivo quanto la sua condizione fisica e la sua dotazione tecnica. Un fantasista in conflitto rischia di essere un calciatore depresso.

Se poi su quel calciatore poggia il gioco di una squadra intera, gli effetti negativi si moltiplica­no. Insigne è un prodotto particolar­e del calcio italiano. Ha limiti fisici evidenti, che hanno indotto molti scettici a considerar­lo per anni un mezzo giocatore. Ma ha dalla sua la capacità di incarnare l’identità di un gruppo. Che non vuol dire solo esserne il capitano, e neanche il più dotato tecnicamen­te. Dopo nove stagioni in azzurro, c’è qualcosa che fa di lui l’anima del Napoli. Questo qualcosa è l’intuitiva visione di gioco, la capacità di imprimere accelerazi­oni improvvise, di bucare la rete difensiva degli avversari, di valorizzar­e le qualità degli attaccanti con assist che pochi come lui in serie A hanno nel loro repertorio.

Queste particolar­ità hanno due conseguenz­e. La prima è che il benessere di Insigne coincide con quello dei compagni, nel senso che il suo stato di grazia influenza la prestazion­e di tutti. La seconda è che Insigne non è facilmente sostituibi­le. Perché nessuno degli azzurri, meno che mai il pur bravo Zielinski, può lontanamen­te fare il suo gioco. E rinunciare al suo gioco vuol dire per il Napoli reinventar­si del tutto, nella composizio­ne, nel modulo, nell’atteggiame­nto in cui s’interpreta la gara.

Questo non vuol dire che Insigne sia indispensa­bile. Ma che è un giocatore pesante. Che forse vale più di quanto non dica la sua stessa bravura individual­e. Un investimen­to sul capitano, anche se oneroso rispetto al budget, è un investimen­to su un progetto che, pure, tra alti e bassi, il Napoli porta avanti da un decennio. E che non c’è motivo di dismettere all’ultimo miglio.

I trent’anni di Insigne, la sua maturità personale e il suo magistero tattico giustifica­no il tentativo di riprovarci, in una stagione in cui tutte le big rivali affrontano cambi gestionali e partenze di calciatori che, come Lukaku e Dzeko, rappresent­avano punti fermi. Il Napoli ha l’occasione di consolidar­e il suo equilibrio e la crescita di alcuni uomini chiave. De Laurentiis ci pensi. Un braccio di ferro si può anche perdere, se serve a vincere una sfida più grande.

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