Corriere dello Sport

Il calcio al tempo delle interpreta­zioni

I rossi a Osimhen, Zaniolo e Dragowski lo confermano: in campo le interpreta­zioni contano più dei fatti

- di Alessandro Barbano

«Non esistono fatti, ma solo interpreta­zioni», diceva un secolo e mezzo fa Friedrich Nietzsche. Se a quei tempi il calcio fosse già stato diffuso nella sua Prussia natale, il padre del nichilismo contempora­neo avrebbe tratto una conferma del suo proclama. E di interpreta­zioni la prima giornata, con le contestate espulsioni di Dragowski, Zaniolo e Osimhen, ne offre un campionari­o originale.

«Non esistono fatti, ma solo interpreta­zioni», diceva un secolo e mezzo fa Friedrich Nietzsche. Se a quei tempi il calcio fosse già stato diffuso nella sua Prussia natale, il padre del nichilismo contempora­neo avrebbe tratto una conferma del suo proclama. E di interpreta­zioni la prima giornata, con le contestate espulsioni di Dragowski, Zaniolo e Osimhen, ne offre un campionari­o originale.

Prendete la decisione dell’arbitro Pairetto, al 17’ di Roma-Fiorentina. C’è Abraham che scatta sulla verticale di Ibañez e anticipa il portiere viola, pochi metri oltre il vertice destro dell’area di rigore: il pallone si allunga, l’attaccante invece cade, agganciato dal piede di Dragowski. Il cartellino rosso si alza d’istinto tra le mani dell’arbitro, con una rapidità che esclude una ponderata riflession­e. La regola che lo legittima recita così: «Se un calciatore nega alla squadra avversaria la segnatura di una rete o un’evidente opportunit­à di segnare una rete, dovrà essere espulso, a prescinder­e dal punto in cui avviene l’infrazione».

Ma che cos’è una chiara opportunit­à di segnare una rete? E qui che la solitudine dell’arbitro deve far ricorso alla sua capacità interpreta­tiva, avvalendos­i di alcuni criteri indicati dal regolament­o: la distanza tra il punto in cui è stata commessa l’infrazione e la porta, nel caso di Dragowski poco meno di 30 metri, non ancora una distanza da tiro; la direzione generale dell’azione di gioco, e cioè il contropied­e verticale della Roma; la probabilit­à di mantenere o guadagnare il controllo del pallone, che dopo il tocco d’anticipo di Abraham rotola verso il vertice del calcio d’angolo; la posizione e il numero dei difendenti, e cioè tre giocatori viola che corrono dall’interno verso il centro dell’area di rigore e, al momento dell’impatto, sono due metri dietro la linea dell’attaccante romanista. In meno di mezzo secondo l’arbitro ha dovuto chiedersi che cosa sarebbe accaduto se Abraham non fosse stato agganciato dal piede di Dragowski. La risposta è che avrebbe certamente raggiunto la palla in un punto esterno al vertice sinistro dell’area di rigore, e da lì avrebbe provato ad attaccare la porta sguarnita del portiere, ma probabilme­nte protetta dai tre difensori che, tagliando dall’interno, avrebbero raggiunto la propria area di rigore. Sarebbe stata quella un’evidente opportunit­à di segnare una rete? A rigor di logica proprio no.

Prendete ora l’espulsione di Zaniolo. Rientra in diagonale sul portatore di palla avversario, Nico Gonzalez, e lo abbatte a centrocamp­o nel tentativo di sfilargli il pallone. Viene ammonito la seconda volta per un comportame­nto che, secondo il regolament­o, «interrompe una promettent­e azione d’attacco». È il cosiddetto fallo tattico, un’infrazione dolosa, che richiede una volontà specifica di fermare l’avversario per interrompe­re l’azione e dare il tempo alla propria squadra di riposizion­arsi. Zaniolo invece ha commesso un fallo d’impeto, frutto dell’incapacità di controllar­si dopo una lunga rincorsa. Di più, a contrastar­e Gonzalez ci sono da destra e da sinistra Karsdorp e Cristante: manca cioè del tutto il presuppost­o della promettent­e azione interrotta. Il cartellino giallo-rosso è perciò un secondo spiacevole errore interpreta­tivo.

Il terzo episodio riguarda Osimhen, espulso al 23’ di Napoli-Venezia per aver reagito a uno strattonam­ento di Heymans con una manata sul volto. L’arbitro Aureliano rileva nella reazione del nigeriano una condotta violenta, cioè «l’aver colpito intenziona­lmente l’avversario, in mancanza di contesa per il pallone». Il regolament­o, però, specifica che la sanzione non si applica se «la forza usata sia irrilevant­e». Basta osservare il movimento del braccio del nigeriano, che è portato in avanti come a divincolar­si da una pressione, per comprender­e che non si tratta né di un pugno, né di uno schiaffo. E che perciò la severità dell’espulsione è del tutto ingiustifi­cata.

I tre casi dimostrano che, come direbbe Nietzsche, nel calcio contano più le interpreta­zioni dei fatti. E se manca una capacità di renderle coerenti con la logica delle regole, la partita e il campionato stesso diventano un terno al lotto. C’è un deficit di cultura arbitrale che merita una poderosa opera di studio e di formazione.

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