Il calcio al tempo delle interpretazioni
I rossi a Osimhen, Zaniolo e Dragowski lo confermano: in campo le interpretazioni contano più dei fatti
«Non esistono fatti, ma solo interpretazioni», diceva un secolo e mezzo fa Friedrich Nietzsche. Se a quei tempi il calcio fosse già stato diffuso nella sua Prussia natale, il padre del nichilismo contemporaneo avrebbe tratto una conferma del suo proclama. E di interpretazioni la prima giornata, con le contestate espulsioni di Dragowski, Zaniolo e Osimhen, ne offre un campionario originale.
«Non esistono fatti, ma solo interpretazioni», diceva un secolo e mezzo fa Friedrich Nietzsche. Se a quei tempi il calcio fosse già stato diffuso nella sua Prussia natale, il padre del nichilismo contemporaneo avrebbe tratto una conferma del suo proclama. E di interpretazioni la prima giornata, con le contestate espulsioni di Dragowski, Zaniolo e Osimhen, ne offre un campionario originale.
Prendete la decisione dell’arbitro Pairetto, al 17’ di Roma-Fiorentina. C’è Abraham che scatta sulla verticale di Ibañez e anticipa il portiere viola, pochi metri oltre il vertice destro dell’area di rigore: il pallone si allunga, l’attaccante invece cade, agganciato dal piede di Dragowski. Il cartellino rosso si alza d’istinto tra le mani dell’arbitro, con una rapidità che esclude una ponderata riflessione. La regola che lo legittima recita così: «Se un calciatore nega alla squadra avversaria la segnatura di una rete o un’evidente opportunità di segnare una rete, dovrà essere espulso, a prescindere dal punto in cui avviene l’infrazione».
Ma che cos’è una chiara opportunità di segnare una rete? E qui che la solitudine dell’arbitro deve far ricorso alla sua capacità interpretativa, avvalendosi di alcuni criteri indicati dal regolamento: la distanza tra il punto in cui è stata commessa l’infrazione e la porta, nel caso di Dragowski poco meno di 30 metri, non ancora una distanza da tiro; la direzione generale dell’azione di gioco, e cioè il contropiede verticale della Roma; la probabilità di mantenere o guadagnare il controllo del pallone, che dopo il tocco d’anticipo di Abraham rotola verso il vertice del calcio d’angolo; la posizione e il numero dei difendenti, e cioè tre giocatori viola che corrono dall’interno verso il centro dell’area di rigore e, al momento dell’impatto, sono due metri dietro la linea dell’attaccante romanista. In meno di mezzo secondo l’arbitro ha dovuto chiedersi che cosa sarebbe accaduto se Abraham non fosse stato agganciato dal piede di Dragowski. La risposta è che avrebbe certamente raggiunto la palla in un punto esterno al vertice sinistro dell’area di rigore, e da lì avrebbe provato ad attaccare la porta sguarnita del portiere, ma probabilmente protetta dai tre difensori che, tagliando dall’interno, avrebbero raggiunto la propria area di rigore. Sarebbe stata quella un’evidente opportunità di segnare una rete? A rigor di logica proprio no.
Prendete ora l’espulsione di Zaniolo. Rientra in diagonale sul portatore di palla avversario, Nico Gonzalez, e lo abbatte a centrocampo nel tentativo di sfilargli il pallone. Viene ammonito la seconda volta per un comportamento che, secondo il regolamento, «interrompe una promettente azione d’attacco». È il cosiddetto fallo tattico, un’infrazione dolosa, che richiede una volontà specifica di fermare l’avversario per interrompere l’azione e dare il tempo alla propria squadra di riposizionarsi. Zaniolo invece ha commesso un fallo d’impeto, frutto dell’incapacità di controllarsi dopo una lunga rincorsa. Di più, a contrastare Gonzalez ci sono da destra e da sinistra Karsdorp e Cristante: manca cioè del tutto il presupposto della promettente azione interrotta. Il cartellino giallo-rosso è perciò un secondo spiacevole errore interpretativo.
Il terzo episodio riguarda Osimhen, espulso al 23’ di Napoli-Venezia per aver reagito a uno strattonamento di Heymans con una manata sul volto. L’arbitro Aureliano rileva nella reazione del nigeriano una condotta violenta, cioè «l’aver colpito intenzionalmente l’avversario, in mancanza di contesa per il pallone». Il regolamento, però, specifica che la sanzione non si applica se «la forza usata sia irrilevante». Basta osservare il movimento del braccio del nigeriano, che è portato in avanti come a divincolarsi da una pressione, per comprendere che non si tratta né di un pugno, né di uno schiaffo. E che perciò la severità dell’espulsione è del tutto ingiustificata.
I tre casi dimostrano che, come direbbe Nietzsche, nel calcio contano più le interpretazioni dei fatti. E se manca una capacità di renderle coerenti con la logica delle regole, la partita e il campionato stesso diventano un terno al lotto. C’è un deficit di cultura arbitrale che merita una poderosa opera di studio e di formazione.