C’era una volta l’Italanta
Continua a investire, eppure il vivaio diventa perfetta metafora di come, per alzare il livello, il club abbia dovuto svestire gli abiti provinciali e anche quelli nazionali. Nel 2019 si presentò con il minor numero di italiani in rosa (4) e chiuse con un
Il paradosso dell’Atalanta è di essere un modello non replicabile, una realtà d’eccellenza in un calcio affondato nei propri debiti. Eppure parlare di modello rischia di essere fuorviante. Quello bergamasco è infatti uno stato organico e di eccezione: da Gasperini a Percassi, vecchio patròn all’italiana sopravvissuto (non per caso) al tramonto dei presidentissimi nazionali; da Giovanni Sartori, responsabile dell’area tecnica e considerato tra i migliori in patria, a tutto uno staff che punta sempre a giocare d’anticipo, proprio come la squadra in campo. Ma è nel vivaio atalantino, sacro fuoco del progetto, che inizia la grande storia nerazzurra: «La nostra prerogativa è sempre quella e non è cambiata: puntare su un settore giovanile importante – ci dice lo stesso Sartori –. Magari è cambiato l’avvicinamento di questi giovani alla prima squadra, che prima avveniva in modo più diretto». L’Atalanta in effetti qui continua a investire, più di prima (non a caso ha vinto due degli ultimi tre campionati primavera e fatto una finale), eppure il vivaio diventa perfetta metafora di come, per alzare il livello, a Bergamo abbiano dovuto svestire gli abiti provinciali e anche quelli nazionali. «Il mondo si è globalizzato – continua Sartori – non puoi più guardare solo nella provincia, nella regione o nella nazione. Noi dobbiamo coprire tutto il mondo, Paesi dove lo sviluppo del calcio ti da opportunità per lavorare, ma non tralasciamo assolutamente l’Italia. Abbiamo voglia di trovare italiani ma non è così semplice, quindi dobbiamo andare all’estero». Sarà per questo che la Primavera oggi, nella sua rosa ufficiale, è composta per un terzo da stranieri. Per non parlare della prima squadra, che già nel 2019 si presentava con il minor numero di italiani in rosa nella Serie A (4) e che chiudeva l’anno con un record: miglior attacco, 98 reti, ma neanche una messa a segno da un italiano. Un dato senza precedenti nella storia del nostro Paese.
Che poi sia chiaro, il club continua a sfornare giovani nazionali: l’anno scorso hanno esordito Ghislandi e Gyabuaa, classe 2001 e cresciuti nel settore giovanile orobico, mentre quest’anno Piccoli ha già siglato la vittoria sul Torino. E tanti altri si potrebbero citare, cominciando da quel Carnesecchi che ha così ben impressionato con l’under 21, e dalla stellina Cortinovis, che però si allena a parte (!). Eppure sembra lontanissima la stagione 20162017, quando il club portava in campo dal vivaio i vari Gagliardini, Caldara, Conti, Sportiello, Grassi, Bastoni. E anche in precedenza, i prodotti più interessanti delle giovanili erano quasi sempre nazionali: Gabbiadini, Montolivo, Bonaventura, Lazzari, Baselli, Consigli etc.
Un trend che si è invertito proprio a partire dal 2017, come ha scritto Alessandro Cappelli su Rivista 11 in un pezzo dal titolo emblematico, “L’Atalanta dei giovani italiani non esiste più”: da allora «tutti dall’estero, tutti a costi relativamente bassi. Questa è diventata la tendenza». In pratica è mutato l’orientamento generale: se prima il settore giovanile era bacino tecnico di rinforzo della rosa, adesso è anche un’enorme risorsa economica. Pensiamo ai casi recenti di Diallo e Kulusevski, venduti rispettivamente per 21 e 35 milioni dopo aver disputato la miseria di 5 e 3 partite in prima squadra. «Noi abbiamo giovani in pianta stabile, e in questi ultimi anni ne abbiamo fatti esordire. Comunque sì, sono esordi sporadici e non continuativi», confessa Sartori.
Ecco allora che la patria dell’Atalanta diventa l’idea, non più la geografia. L’idea naturalmente del demiurgo Gasperini: «Noi cerchiamo caratteristiche per venire incontro all’allenatore, le cui indicazioni sono chiare». Ciò, inevitabilmente, ha interrotto il flusso diretto tra primavera e prima squadra: «Avendo alzato il livello, è normale che i giovani debbano fare un percorso esterno per rientrare». E però non ovunque è così, anzi. In Italia ad esempio l’ottimo Scalvini (classe 2003), investito dallo stesso Gasperini come possibile erede di Bastoni, è già fortunato se riceve una convocazione tra i grandi. In Germania invece uno come Bellingham, sempre classe 2003, ha già 40 partite tra Bundes e Champions. «Questo è vero ma non riguarda l’Atalanta. Senza citare l’Olanda, anche in Francia fanno giocare i 2004, i 2003. Probabilmente hanno più coraggio, mentalità diversa, noi siamo in ritardo per lancio dei giovani, forse per cultura nostra particolare».
Forse, chissà. Di certo, per resistere alla sempre più (pre)potente globalizzazione, non basta più la sola dimensione locale. Ora quelli bravi vanno a pescare in Olanda, Svizzera, Belgio, Bulgaria, Ucraina, proprio come fa Sartori. Perché non è più tempo di favole, con buona pace dei tanti antimoderni nel pallone – tra cui spesso è difficile non ritrovarsi. Adesso si tratta di diventare grandi, e sembra che qualche italiano dovremo lasciarlo per strada.