Decreto Crescita e la distorsione del mercato
Gli sgravi fiscali per i calciatori in arrivo dall’estero penalizza il mercato interno. Gli scenari
Due anni di sgravi fiscali ai giocatori provenienti dall’estero sono un tempo sufficiente per abbozzare un bilancio. L’articolo 5 del Decreto Crescita (aprile 2019, poi convertito in legge) recitava nel titolo “Rientro dei cervelli”, mirando ad attrarre persone residenti all’estero (italiane o straniere) attraverso l’istituzione di un trattamento fiscale agevolato, poi entrato in vigore il 1 gennaio 2020.
Già il termine “cervelli” suggeriva il fine di potenziare lo stock di competenze del sistema produttivo, incentivando il rimpatrio di chi aveva trovato altrove opportunità migliori. Cosa c’entravano dunque i calciatori?
Nell’estendere la norma allo sport si cercava forse, più che altro, di non commettere discriminazioni privando di agevolazioni offerte alla generalità dei lavoratori una categoria di cittadini (gli sportivi). Inizialmente, infatti, il decreto prevedeva il requisito della “elevata qualificazione o specializzazione” ma la rimozione di tale discriminante aprì le porte agli sportivi. Il godimento dei benefici resta vincolato a tre condizioni: residenza all’estero nei due anni fiscali precedenti il rimpatrio, residenza in Italia per almeno due anni dopo il rimpatrio e svolgimento di attività lavorativa in Italia.
L’effetto del regime speciale nel calcio, però, è un doppio binario tra i calciatori provenienti dall’estero e quelli residenti in Italia: acquistando i primi un club sopporta un costo-azienda inferiore a parità di netto per il calciatore. Se una regola semplice per convertire lo stpendio netto in lordo è di quasi raddoppiarlo, per un calciatore prelevato dall’estero il lordo è invece solo 1,3 volte il netto. Ad esempio, la Juventus può dare 8 milioni netti a De Ligt spesandone 10,5 mentre l’olandese ne costerebbe 15 senza il Decreto e questo vale per tutti: 7 milioni netti a Ibrahimovic costano al Milan 9,2 milioni lordi mentre, in assenza del beneficio fiscale, arriverebbero allo svedese 4 milioni.
Qualsiasi incentivo fiscale produce distorsioni per il mercato nel complesso, positive o negative, avvantaggiando alcuni rispetto ad altri. Una distorsione del mercato accade quando si forma un equilibrio che le forze di domanda e offerta non avrebbero prodotto spontaneamente, in assenza di fattori esterni. Assegnare ai calciatori residenti all’estero vantaggi fiscali inaccessibili ai residenti in Italia favorisce i primi rispetto ai secondi.
L’estensione del Decreto ai calciatori fu salutata come un fattore che avrebbe reso più competitivi i nostri club, alle prese con un evidente gap finanziario rispetto ad altri campionati, ma la competitività non si insegue coi benefici fiscali. Un’azienda è competitiva se gestisce il suo business meglio dei concorrenti: solo così conquista quote di mercato, accresce il fatturato, soddisfa le attese degli azionisti mentre un vantaggio competitivo legato a distorsioni fiscali è effimero e illusorio.
Secondo un’altra scuola di pensiero, invece, la misura avrebbe aiutato i club ad abbassare il monte ingaggi ma anche questa si è rivelata un’illusione: la stessa dinamica concorrenziale lo impedisce. Il calcio è un’industria in cui è acerrima la competizione per le posizioni che offrono ritorni economici, ad esempio qualificarsi alle coppe. Godere di un vantaggio fiscale è solo una leva per aggiudicarsi campioni il cui costo sarebbe insostenibile cercando di battere la concorrenza. Così alcuni club non hanno abbassato il costo della rosa, ma hanno solo alzato il tiro delle ambizioni.
L’effetto più preoccupante è però il deprezzamento dei giocatori nostrani. Permanendo la distorsione fiscale, i club avranno meno interesse a prendere calciatori residenti e rivolgeranno le attenzioni solo ai mercati esteri penalizzando il valore dei giocatori in rosa, meno convenienti rispetto a colleghi stranieri più scarsi ma anche meno costosi. Strutturalmente ne risentirebbe anche, nel lungo periodo, la qualità tecnica del campionato italiano. Inoltre, proprio le società hanno nella rosa l’asset di maggiore valore e subirebbero così un danno economico collaterale, perché il crollo dei cartellini ne penalizza già la struttura patrimoniale e la capacità di fare utili da player trading.
In Premier, ad esempio, gli affari domestici fioriscono – certamente anche per la forza economica del campionato – mentre da noi il mercato interno è ridotto ai minimi termini. Il governo dovrebbe forse ripensare queste misure, possibilmente abrogarne l’estensione al calcio. I club che l’hanno caldeggiata dovrebbero riflettere sulla sua effettiva funzionalità al proprio modello di business.
De Ligt oggi al lordo costa 10,5 milioni: diventerebbero 15 senza l’incentivo