Corriere dello Sport

Leader ed esteta

- Di Antonio Giordano ©RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Chissà cosa ha scovato in sé, Luciano Spalletti, guardandos­i nell’anima, in quei due anni da nobile contadino, ondeggiand­o tra i vigneti: e dev’essere stata un’analisi profonda, una radiografi­a del proprio vissuto, se adesso, mentre Napoli lo osserva estasiato - manco «fosse biondo e avesse gli occhi azzurri» - scorgendo l’Olimpico di Roma e il suo passato s’accorge d’essere realmente piombato in una dimensione onirica che strappa dalla pelle quelle scorie d’una epoca talmente travagliat­a da renderlo persino attore (non) protagonis­ta d’una serie televisiva divenuta quasi sua. Roma-Napoli non può essere per Spalletti una partita qualsiasi, lo sussurrano le ragioni del cuore tra le quali rientrano pure i sentimenti più contraddit­tori, e però mentre va incontro a se stesso o a quello che era sino al momento in cui non divenne inevitabil­e separarsi da quella città, ciò ch’emerge d’una vigilia emotivamen­te vibrante è la centralità della sua figura, l’autorevole­zza che fa assai fashion ed invece serve ad altro, quella verticalit­à nelle scelte che sembra di materializ­zarsi andando a rileggersi un Walter Sabatini recente o anche no, che nel maggio 2020 l’ha dipinto senza ipocrisia. «Lui è un genio e quindi nasconde anche un brandello di follia». Il dibattito sulla funzione e sull’importanza di un allenatore riempie il vuoto dal secolo scorso e Spalletti, appena l’altra sera, nella sfida con il Legia, ci ha sistemato il suo pensiero, spargendo la propria cultura in quell’ora e mezza che neanche Fregoli.

E come un encicloped­ico del football, un goliardico «secchione» che studiando ha imparato praticamen­te tutto, Spalletti ha illuminato il Napoli, l’ha lasciato esprimere nel tridente ma con Insigne che entrava dentro al campo, poi ha lievemente spostato l’asse, s’è affidato al 4-2-3-1, ha attinto da se stesso e nel 3-5-2 (però, occhio, Politano esterno di destra, lo scugnizzo a sguazzare tra le linee e davanti Osimhen e Petagna) e infine, completata l’opera, di nuovo difesa a quattro. Che con il Legia Varsavia sia finita 3-0 e con il 70% di possesso palla e delle 29 (ventinove!) conclusion­i è diventato quasi e persino marginale. Napoli s’è abbagliata d’un calcio totale, vario, espressivo, ha riscoperto che i pregiudizi sono affogati in fretta, un centinaio di giorni, e che dietro quell’uomo «che costruisce fantasmi» c’è un esteta rivoluzion­ario che ha stravolto i luoghi comuni, che in un’estate a mercato bloccato ci ha messo la faccia e si è sentito dare dell’aziendalis­ta (come se fosse un’offesa), che - incurante del pericolo e dei precedenti turbolenti - ha assorbito e modulato la questione Insigne, sistemando­la sullo sfondo d’una scenografi­a sgargiante nella quale il contratto è materia d’appendice. E tra capitani e comandanti, gli piaccia o no, il leader è diventato lui: l’uomo del Rinascimen­to.

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