Mouaha: «Oggi la mia America si chiama Benacquista Latina»
Il camerunense, che sogna di giocare in Nba, prepara la sfida alla Next Nardò di domenica
Non smette di sognare Aristide Mouaha, classe 2000 nato in Camerun. Ha lasciato la sua terra a 16 anni per diventare un giocatore di basket. «Convincere mia figlia è stata una delle cose più complicate» racconta il play-guardia che gioca nella Benacquista Latina. «Stefano Bizzozi mi aveva scovato su un campetto vicino a casa mia. Da piccolo avevo iniziato con il calcio ma in Camerun questo sport si pratica solo pagando. La mia famiglia non poteva permetterselo così ho iniziato a giocare con le mani. Poi sono cresciuto più dei miei fratelli più grandi, entrambi cestisti, ed è nata la passione. Papà e mamma però non volevano lasciarmi andare via. Abbiamo fatto tante di quelle riunioni, poi ho preso la borsa e mi sono imbarcato per l’Italia». Dove la prima grande difficoltà è stata atmosferica. «Ero abituato al caldo del mio paese, sono arrivato in novembre e per me il freddo di Roma, ero stato chiamato dalla Hsc, era simile a quello del Polo Nord».
Bizzozi ci aveva visto giusto. Il ragazzino ha iniziato a farsi notare. «E oggi sono a Latina. È la mia seconda stagione. Sono rimasto perché credo che alla mia età sia importan
IL PRESENTE.
te giocare, mettere minuti nel proprio bagaglio. Poi mi trovo a meraviglia con Franco Gramenzi. Lui è la mia grande garanzia». Aristide con 11 punti è stato uno dei protagonisti del successo di Latina a Forlì nel posticipo. «Serviva una vittoria così perché ci restituisce fiducia. Ora aspettiamo Nardò, non possiamo sbagliare. Ci serve continuità per dare un senso al nostro campionato». Cinque giocatori in doppia cifra nel blitz in terra di Romagna, un gran bel segno. «Significa – prosegue Mouaha - che i meccanismi di squadra migliorano. Con Terry Henderson mi capisco a meraviglia e attorno a lui possiamo crescere tutti». Lavorare duro per costruirsi un futuro. «Quello di squadra ma anche il mio. Ora sono concentrato al massimo sulla nostra stagione. Ma è normale per un ragazzo della mia età coltivare sogni. La Nba? Come fare a non pensarci, a non lasciare spazio alla speranza di farcela un giorno. Intanto la mia America si chiama Latina, poi si vedrà». Uno però Aristide lo ha realizzato. «Giocare con la Nazionale del mio Paese. Quando è arrivata la convocazione per le qualificazioni alla Coppa d’Africa, era lo scorso febbraio, il cuore ha iniziato a battere all’impazzata. Ce l’avevo fatta e all’inno ho fatto fatica a trattenere le lacrime. Giocare per il Camerun era una realtà». Chissà che un giorno non realizzi anche quella di incrociare il giocatore da cui trae ispirazione. «Sono sportivamente innamorato di Campazzo, un genio del basket». Tante luci ma anche qualche ombra. «Quando ero nelle giovanili dell’Hsc Roma mi è capitato di essere vittima di un brutto episodio di razzismo. Una volta il parquet era bagnato e allora presi lo spazzolone per asciugare. Il papà di un avversario mi urlò: schiavo nero pulisci tu. Ho trattenuto la rabbia e pensato al figlio, poverello, che giocava contro di me. Ecco tra i miei sogni, oltre alla Nba c’è anche un mondo dove cose del genere non dovrebbero più accadere».