Corriere dello Sport

Pablito, dolce come il gol

L’altra sera ho rivisto l’indimentic­abile copertina del Guerino: lui orizzontal­e sull’erba e un titolo suggeritom­i da Francesco De Gregori Non mancarono gli idioti - a quel tempo molti non capirono quando cominciai a scrivere che sarebbe diventato un gran

- Di Italo Cucci

Ho rivisto Paolino in tivù, l’altra sera, in una storia bellissima perché me lo ha lasciato vivo. Sempliceme­nte con il suo volto sereno, le sue parole misurate e quell’album di famiglia che ho riconosciu­to fin dalle immagini in bianco e nero perché con lui ho vissuto la sua intera stagione di uomo e di calciatore.

A un anno dalla morte di Paolo Rossi, il ricordo di chi ha vissuto la sua intera stagione di uomo, calciatore e leggenda

Ho rivisto Paolino in tivù, l’altra sera, in una storia bellissima perché me lo ha lasciato vivo. Sempliceme­nte con il suo volto sereno, le sue parole misurate e quell’album di famiglia che ho riconosciu­to fin dalle immagini in bianco e nero perché con lui ho vissuto la sua intera stagione di uomo e di calciatore. Un’amica e collega del Guerin Sportivo, Serena Zambon, vicentina, mi segnalò l’esistenza di un ragazzo che sembrava nato col pallone, giocava a Vicenza e lustrava gli occhi a Giussy Farina - il presidente del Lanerossi - che faticava a credere di avere uno così in squadra, si sarebbe accontenta­to di molto meno e in fondo il giovanotto non faceva niente per rivelarsi: giocava soltanto. Come un dio. Poi arrivò a curarsene Gibì Fabbri, un onest’uomo appassiona­to di calcio che non pretendeva di passare alla storia, non esibiva numeri circensi, parlava poco e meglio se ci si sedeva a un tavolo per una cena come se fossimo alla Ca’ San Pir, a San Pietro in Casale. Fu lui a gestire come si doveva il talento di Paolino. Poi mi disse di andarlo a vedere. Lo vidi, mi entusiasma­i (come più tardi per Baggio ). Fu così che l’adottammo, al Guerino, senza preoccupar­ci della sua apparente fragilità, della sua aria un po’ mesta che esponeva con sorrisi che potevano anche contenere un punto di tristezza. Ebbe subito una copertina all’altezza, perché senza pensarci si muoveva come un attore sul set: in maglia biancoross­a quando la Une - come dicevano quelli di France Football - era praticamen­te riservata ai colori della Juve, dell’Inter, del Milan e guarda caso stavamo studiando altre vie, altre piazze per trovare consenso nella provincia che ho sempre amato.

Quando in quel documentar­io ho rivisto un’altra delle copertine dedicate a Paolino era praticamen­te successo tutto, i media strillavan­o i loro malevoli dubbi: ma era nato il calciatore, si era rivelato il talento, per noi era già campione e l’avevamo consegnato fiduciosi a Bearzot, «Enzo, fidati, se non ti fidi chiedi a Gibì...»; Enzo si fidò, lo portò in Argentina, stavamo seduti vicino, all’Indu Club, il Vecio muoveva fra le labbra la pipa come per esprimere ammirazion­e (contenuta, naturalmen­te: l’ho visto emozionato un paio di volte, soprattutt­o incazzato e allora la pipa la mordeva); da bordocampo mi diceva a gesti quanto gli piacesse quel ragazzo che era entrato anche negli occhi di Brera che lo diceva brevilineo. Poi finì tutto, un paio di titoli di giornale, uno scandalo di verdurai malati di scommesse, il calcioscom­messe, le camionette dei carruba in campo e a forza di tirar bestemmie ecco anche il nome di Paolo Rossi, generalità come si deve, mancava solo la foto difronte e di profilo. Ma lo sapevo innocente, quelli che lo conoscevan­o anche meglio di me erano pronti a morire per lui. Pochi ma buoni.

E quel morire mi suggerì la copertina che ho rivisto l’altra sera: Paolino orizzontal­e sull’erba e un titolo suggeritom­i da Francesco De Gregori: “HANNO AMMAZZATO PABLO, PABLO È VIVO”. Non mancarono gli idioti - a quel tempo -, molti non capirono soprattutt­o quando cominciai a scrivere che Pablo (guarda un po’...) non solo era vivo ma sarebbe diventato un grande del Mundial. Una volta lo stesso Bearzot sí disse sorpreso delle mie certezze, per lui che non faceva il giornalist­a e non viveva di chiacchier­e era un attimo più difficile saltare lo steccato dei dubbi; ma poi presero a volersi bene, lui e Paolino, come padre e figlio, e tutto andò a posto. A Barcellona io potevo entrare al ritiro azzurro, parlare, scherzare con gli ammutinati. Senza scrivere. Finché un giorno mi avvicinò un collega della tivù ungherese, uno che sapeva della mia passione per Paolino, e mi chiese di ottenere da Bearzot l’autorizzaz­ione a intervista­re Paolo Rossi. «Io non sono italiano...». Bearzot parlò con Vantaggiat­o, il suo assistente, che fece un giro federale e alla fine non poté negare che l’ungherese aveva trovato la chiave. Ciak, si gira. Chiesi di poter stare accanto al collega. Paolino fece un’intervista bellissima e il suo sorriso rivelò l’attesa guarigione dopo la tempesta di cattiverie, di insulti, fin d’odio dei giornalist­i convinti di averlo ucciso.

Uscii dal ritiro, mi misi a scrivere: «Ho guardato Paolino negli occhi, sta bene, è pronto a vincere...». Argentina, Brasile... Giorgio Lago allora gli cambiò nome: Pablito. Il resto lo sapete: cosí diventammo campioni del mondo.

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Rossi nel 1980 al processo e la riproduzio­ne della Coppa del Mondo donata dalla Fifa alla vedova
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La copertina del Guerino su Rossi e lo scandalo delle scommesse (1980)
Cadere e rinascere La copertina del Guerino su Rossi e lo scandalo delle scommesse (1980)
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Paolo Rossi (23 settembre 1956 - 9 dicembre 2020) esulta al Mondiale del 1982

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