La lezione di Carlo al calcio che cambia
La Spagna celebra Ancelotti: gli anni passano, lui vince sempre Florentino Perez gongola: «Ci conosce e può portarci in una nuova era» El Pais lo esalta: «Gli basta alzare il sopracciglio per muovere la palla»
«Hoy hemos tenido demasiada posesión» («oggi abbiamo fatto troppo possesso palla»). L'ha buttata lì Carlo Ancelotti, in conferenza stampa, dopo aver battuto 2-0 l'Athletic Bilbao in finale di Supercoppa di Spagna e aver riportato un trofeo che mancava nella bacheca del Real Madrid da 560 giorni: un'eternità da quelle parti.
«Hoy hemos tenido demasiada posesión». Come sa fare lui, ironicamente, col sorriso appena accennato. Senza l'animosità di chi vuole addentrarsi in una disputa filosofica. Eppure senza rinunciare a dirlo. Alla Nils Liedholm suo riferimento calcistico e non solo.
È strano il destino di questo emiliano, figlio di contadini, che attraversa il calcio da oltre quarant'anni. In campo e in panchina. Che quasi sempre è stato dalla parte degli innovatori, dei precursori, Liedholm appunto, Arrigo Sacchi, ma con una naturale avversione agli integralismi, alle frenesie, alle mode del momento. La parola contropiede per lui è come la puzza della strada per Robert De Niro in “C'era una volta in America”, gli apre i polmoni. Oltre che le difese avversarie, come capitato col Barcellona nella semifinale di Supercoppa vinta 3-2.
El Paìs ha scritto: «Gli basta alzare un sopracciglio per muovere la palla, e un pacchetto di gomme da masticare per dominare la partita contro rivali gestite da tecnici definite d'autore come Marcelino. Ancelotti in definitiva simboleggia il trionfo del tecnico enciclopedico in tempi di analisi e big data in Europa, America e Asia».
Florentino Perez si è affidato a lui per traghettare il Madrid in una nuova dimensione dopo la fine del rapporto con Zidane e una stagione insolitamente senza titoli. C’era e c’è da gestire un delicato ricambio generazionale: «Abbiamo apportato alcune modifiche e stiamo entrando in una nuova era con un allenatore che ci conosce bene», ha detto l'altra sera dopo la vittoria. «Un allenatore che ci conosce bene». Un usato sicuro e di lusso. Il Real è anche primo in campionato: Atletico e Barcellona sono lontanissimi, è rimasto solo il Siviglia ancora in lotta per il titolo.
Un italiano da esportazione. Che ha lavorato con i più grandi presidenti d'Europa: da Al Khelaifi ad Abramovic, da Berlusconi a Florentino. L'Italia lo aveva dato per bollito. A Napoli lo chiamavano pensionato. Un po’ perché viviamo tempi in cui la caduta del mito provoca pulsioni erotiche. Un po’ perché non s'è mai voluto adeguare al calcio del petting: così Sacchi definiva le prestazioni del Milan quando tenevano il pallone ma non facevano male agli avversari. Quasi un rinnegato, viste le sue origini. In realtà un pragmatico. Anzi un semplice, nel senso più alto del termine. Nessuno lo convincerà mai che otto passaggi consecutivi, con tre tocchi del portiere, siano più eccitanti di tre passaggi in verticale e palla in rete. Dopo averlo battuto, ci ha tenuto a rispondere a Xavi che «non ci siamo abbassati perché eravamo in difficoltà ma per trovare spazi per il contropiede». Nella sua conferenza di presentazione napoletana, gelò una sala stampa sarrita fino al midollo: «Oggi i portieri si arrampicano sugli alberi, giocano con i piedi, io sono uno all'antica: per me il portiere bravo è il portiere che sa parare». Come Courtois che l'altra sera ha respinto il rigore che avrebbe potuto riaprire la partita.
Un video lo ha immortalato mentre “rimproverava” Modric nominato miglior in campo della finale: «Hai sbagliato un passaggio!». E dire che a Madrid è criticato perché fa giocare sempre gli stessi, soprattutto a centrocampo. «Sono contento perché ho una squadra che sa giocare in differenti modi - ha detto -, mi piace vederla giocare». Se li coccola eccome i calciatori. «Avevo dubbi sull'aspetto difensivo ma siamo cresciuti molto. I giocatori lo hanno compreso. So che per Modric e Kroos non è il massimo difendere ma lo fanno. Quando vinci molto, a volte pensi di essere il più bello, pensi di giocare il miglior calcio e quindi la voglia di sacrificarsi diminuisce, ma non qui».
Lo chiamano leader calmo. Ma è una definizione che non gli rende giustizia. Anche perché, soprattutto in Italia, in troppi scambiano calmo per altro. «Allenare al Real Madrid è sempre qualcosa di speciale per un allenatore». La sensazione è che sia tornato a casa.
A Napoli gli davano del pensionato: ha vinto la Supercoppa ed è primo in Liga