Se i campioni impongono le scelte ai club
Nel mercato di quest’anno si impone una casistica, anni fa, ignota: giocatori (anche top) con contratto scaduto e un’evidente difficoltà a trovare squadra. Sarà colpa, in qualche caso, delle richieste dei procuratori o della carta d’identità ma non si ricordano calciatori a zero sul mercato come quest’anno.
Dybala, Belotti, Romagnoli, Mertens, Bernardeschi i più noti in Serie A ma anche all’estero Isco, Marcelo, Suarez, Lingard, Dembelè. Solo per citarne alcuni, accomunati dal non sapere dove giocheranno l’anno prossimo.
All’opposto, in una polarizzazione stridente, campioni in grado di dettare la linea da seguire: dove andare, quando lasciare il club o rifiutare cessioni già apparecchiate. Padronissimi del proprio destino. Manè ha scelto, senza motivi evidenti, di passare al Bayern e il club lo ha accontentato mentre lo psicodramma Lukaku non ha precedenti nella storia. Uno dei giocatori più costosi del calcio mondiale, sia in termini di valore dell’acquisto che di stipendio, decide di andare al Chelsea (sogno della sua vita) si pente dichiarando l’intenzione di tornare all’Inter dopo appena tre mesi e si mette d’impegno riuscendo, quasi da solo, a organizzare una cessione da cui il club proprietario del cartellino subisce una catastrofe economica. Su livelli superiori, Mbappe ingaggia una guerra da separati in casa, per un anno, con il club che intanto lo paga a peso d’oro. Poi si accorda col Real, su un ingaggio faraonico che il Psg deve solo accettare, vista la scadenza del contratto. Salvo ribaltare finalmente tutto per restare a Parigi. Sostenuto certamente da nobili intenzioni, solo leggermente agevolate da montagne di denari riversategli dal club del Qatar per alleviargli la pesantezza di mantenere la residenza nella città della Tour Eiffel.
Entrambe le tendenze, apparentemente contrastanti, sono frutti postumi del raiolismo che ha esasperato lo spostamento del potere contrattuale dai club ai giocatori, convincendo questi (e gli agenti) che ogni stilla di sudore va monetizzata e le società sono polli da spennare a cui vendere (all’asta) le loro preziose doti tecniche.
Il calcio è un’industria in cui la risorsa scarsa è il talento. Di Mbappè ne esiste uno (e uno solo). Chi vuole lui (e solo lui) deve disporsi a mobilitare qualunque cifra. Sapendo che la polarizzazione nella distribuzione (o nell’origine) delle risorse produce uno stato in cui esistono pochissimi partecipanti al mercato titolari di risorse infinite mentre la grandissima maggioranza deve centellinare ogni euro per quadrare bilanci traballanti o evitare la scure di un Fair Play Finanziario applicato con strabismo inaccettabile.
Anche tra i giocatori si notano strategie clamorosamente vincenti (come i cento milioni alla firma ottenuti da Mbappè solo per non traslocare) e altre rivelatesi fragorosi autogol. Qualcuno ha respinto proposte di rinnovo necessariamente al ribasso, a causa della crisi, nell’attesa di liberarsi finalmente a zero per firmare il contratto della vita, solo per ritrovarsi tristemente alla ricerca di un datore di lavoro perché il mercato non sostiene più certe cifre tranne che per campioni eccezionali.
Da noi la penuria di richieste non colpisce solo giocatori a fine corsa ma campioni ben sotto i trenta, un tempo contesi dalle big. Colpi da prima pagina, come Bernardeschi quando la Juve lo strappò alla Fiorentina a suon di milioni. Un fenomeno figlio del calo di appeal della Serie A, ormai noto anche alle big europee, che non hanno l’anello al naso. Se panchinari di Premier scendono a fare la differenza in Serie A, poi precipitano nell’anonimato quando tornano oltre Manica a cifre assurde, un motivo tecnico deve esserci. Tre anni fa, per Dybala, c’era la fila. I Red Devils lo volevano per 90 milioni e lavoravano allo scambio con Lukaku ma tutto saltò, per una storia legata ai diritti di immagine. Da conteso per 90 milioni a disoccupato in cerca di squadra sembra passata una vita.