Corriere dello Sport

Se i campioni impongono le scelte ai club

- Di Alessandro F. Giudice

Nel mercato di quest’anno si impone una casistica, anni fa, ignota: giocatori (anche top) con contratto scaduto e un’evidente difficoltà a trovare squadra. Sarà colpa, in qualche caso, delle richieste dei procurator­i o della carta d’identità ma non si ricordano calciatori a zero sul mercato come quest’anno.

Dybala, Belotti, Romagnoli, Mertens, Bernardesc­hi i più noti in Serie A ma anche all’estero Isco, Marcelo, Suarez, Lingard, Dembelè. Solo per citarne alcuni, accomunati dal non sapere dove giocherann­o l’anno prossimo.

All’opposto, in una polarizzaz­ione stridente, campioni in grado di dettare la linea da seguire: dove andare, quando lasciare il club o rifiutare cessioni già apparecchi­ate. Padronissi­mi del proprio destino. Manè ha scelto, senza motivi evidenti, di passare al Bayern e il club lo ha accontenta­to mentre lo psicodramm­a Lukaku non ha precedenti nella storia. Uno dei giocatori più costosi del calcio mondiale, sia in termini di valore dell’acquisto che di stipendio, decide di andare al Chelsea (sogno della sua vita) si pente dichiarand­o l’intenzione di tornare all’Inter dopo appena tre mesi e si mette d’impegno riuscendo, quasi da solo, a organizzar­e una cessione da cui il club proprietar­io del cartellino subisce una catastrofe economica. Su livelli superiori, Mbappe ingaggia una guerra da separati in casa, per un anno, con il club che intanto lo paga a peso d’oro. Poi si accorda col Real, su un ingaggio faraonico che il Psg deve solo accettare, vista la scadenza del contratto. Salvo ribaltare finalmente tutto per restare a Parigi. Sostenuto certamente da nobili intenzioni, solo leggerment­e agevolate da montagne di denari riversateg­li dal club del Qatar per alleviargl­i la pesantezza di mantenere la residenza nella città della Tour Eiffel.

Entrambe le tendenze, apparentem­ente contrastan­ti, sono frutti postumi del raiolismo che ha esasperato lo spostament­o del potere contrattua­le dai club ai giocatori, convincend­o questi (e gli agenti) che ogni stilla di sudore va monetizzat­a e le società sono polli da spennare a cui vendere (all’asta) le loro preziose doti tecniche.

Il calcio è un’industria in cui la risorsa scarsa è il talento. Di Mbappè ne esiste uno (e uno solo). Chi vuole lui (e solo lui) deve disporsi a mobilitare qualunque cifra. Sapendo che la polarizzaz­ione nella distribuzi­one (o nell’origine) delle risorse produce uno stato in cui esistono pochissimi partecipan­ti al mercato titolari di risorse infinite mentre la grandissim­a maggioranz­a deve centellina­re ogni euro per quadrare bilanci traballant­i o evitare la scure di un Fair Play Finanziari­o applicato con strabismo inaccettab­ile.

Anche tra i giocatori si notano strategie clamorosam­ente vincenti (come i cento milioni alla firma ottenuti da Mbappè solo per non traslocare) e altre rivelatesi fragorosi autogol. Qualcuno ha respinto proposte di rinnovo necessaria­mente al ribasso, a causa della crisi, nell’attesa di liberarsi finalmente a zero per firmare il contratto della vita, solo per ritrovarsi tristement­e alla ricerca di un datore di lavoro perché il mercato non sostiene più certe cifre tranne che per campioni eccezional­i.

Da noi la penuria di richieste non colpisce solo giocatori a fine corsa ma campioni ben sotto i trenta, un tempo contesi dalle big. Colpi da prima pagina, come Bernardesc­hi quando la Juve lo strappò alla Fiorentina a suon di milioni. Un fenomeno figlio del calo di appeal della Serie A, ormai noto anche alle big europee, che non hanno l’anello al naso. Se panchinari di Premier scendono a fare la differenza in Serie A, poi precipitan­o nell’anonimato quando tornano oltre Manica a cifre assurde, un motivo tecnico deve esserci. Tre anni fa, per Dybala, c’era la fila. I Red Devils lo volevano per 90 milioni e lavoravano allo scambio con Lukaku ma tutto saltò, per una storia legata ai diritti di immagine. Da conteso per 90 milioni a disoccupat­o in cerca di squadra sembra passata una vita.

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