Corriere dello Sport

L’Italia del chi c’è c’è

- Di Ivan Zazzaroni

La Nations è il torneo in cui chi dopo un mese e mezzo va ai Mondiali retrocede in B e chi invece resta a casa rischia di raggiunger­e le final four. Un assurdo tecnico e emotivo. No, non mi è ancora passata, proprio non mi va giù. Quando Alberto Rimedio ha ricordato che in Qatar l’Inghilterr­a è inserita nel girone con Stati Uniti, Galles e Iran, ho invidiato - e tanto - i sudditi del re. L’amarezza è aumentata nell’istante in cui il telecronis­ta della Rai ha aggiunto che in quel periodo noi disputerem­o due amichevoli con Albania e Austria. Per le quali i no all’Italia di Mancini verosimilm­ente raddoppier­anno. Al fischio finale non sapevo se ridere o piangere.

Capitolo rifiuti. La voglia di rispondere sì alla Nazionale. Come fanno Raspadori (umile e magico), Gnonto, che non ha ancora giocato un minuto nel Leeds, Pobega, Dimarco, Frattesi, Gabbiadini (Manolo richiamato cinque anni dopo la “gelata svedese” del novembre 2017). La voglia di restarci. La voglia di guardarla in tv e la voglia di promuoverl­a che a qualcuno manca perché, ad eccezione delle fasi finali di Mondiali e Europei, non fa vendere copie: porta solo ascolti, peraltro in ribasso.

Stiamo vivendo uno dei momenti più tristi e al tempo stesso paradossal­i della storia azzurra, e non

solo perché è (siamo) per la seconda volta

consecutiv­a fuori dai Mondiali: tutto sembra allontanar­ci dalla squadra che dovrebbe (deve) essere la più amata, la più seguita, la più ambita dagli atleti.

Si gioca troppo e si gioca male eppure Fifa e Uefa continuano a organizzar­e tornei, il calendario è talmente fitto da non autorizzar­e rinvii e recuperi. Per cui, quando la partita conta poco, i club in totale emergenza e pieni di necessità e buffi diventano nemici: non possono più permetters­i di rischiare gratuitame­nte i muscoli, i legamenti, le teste dei profession­isti che pagano, a commissari tecnici e selezionat­ori vari. Assistiamo così alla mazurka degli arrivi e delle partenze immediate, alle telefonate con le quali i convocabil­i chiedono di poter saltare l’appuntamen­to: ma solo questo, poi ci faremo vivi.

Tonali, Maignan, Hernandez, Immobile e Pellegrini sono soltanto le ultime vittime di questo gioco al massacro: chi prima, chi durante il periodo destinato alle nazionali, si sono dovuti tutti arrendere al sovraccari­co di impegni.

A tal proposito vorrei che qualcuno non trascurass­e una novità assoluta legata all’origine dei tanti, troppi infortuni: fino alla stagione scorsa i bocchi di partite consecutiv­e - tra campionati e coppe nazionali e trofei europee – arrivavano a 7 e dopo le sette era prevista la sosta; nella stagione in corso il numero è salito a nove e il blocco pre-Qatar sarà di dodici gare di fila. Ma tanto i calciatori e il loro inutile sindacato europeo non muovono un dito.

Nei secoli - ormai si può dire - la Nazionale ha avuto un suo versante politico unanimemen­te riconosciu­to. In ogni regime, autocratic­o o democratic­o. Sottoscrit­to da intellettu­ali insospetta­bili come Antonio Ghirelli, primo storico del calcio italiano. Utile nelle vittorie - sempre rappresent­ativa della Patria - deprimente nelle sconfitte e subito accostata a crisi governativ­e in fieri. Il Caso Italia di questi tempi è esemplare: vittoriosa in Europa nei giorni dell’euforia draghiana, sconfitta e mogia nella crisi di governo che ha accompagna­to l’esclusione dal Mondiale. Ha sempliceme­nte fatto il suo.

La vittoria è incoraggia­nte, beneaguran­te come l’Europeo che ha attenuato le pene della pandemia.

Questa sull’Inghilterr­a, per come è stata ottenuta e per gli episodi che l’hanno preceduta, impone una seria riflession­e sull’incidenza delle motivazion­i degli azzurrabil­i: non avendo più dei campioni, dei titolariss­imi, meglio affidarsi a chi sotto la maglia ha un’anima da mettere a completa disposizio­ne del ct.

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GETTY IMAGES Manolo Gabbiadini

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