Corriere dello Sport

Dolceamaro Budapest

- Di Alessandro Barbano

C’è il gruppo, c’è il genio, c’è la tigna, e c’è anche il centravant­i che cercavamo, ma proprio per questo la vittoria di Budapest è grande quanto un rimpianto sconsolato. Giocheremo la Final Four con buone possibilit­à di confermare la leadership europea, ma nel frattempo guarderemo il Mondiale degli altri come una colpa. Il volto di Mancini dopo il due a zero all’Ungheria racconta questo contrasto di emozioni. L’Italia è una stupenda esclusa, pagherà per quattro anni gli errori di una qualificaz­ione trattata con sufficienz­a dal sistema calcistico e con qualche prudenza di troppo dal ct. Che, per gratitudin­e verso i combattent­i di Wembley, ha rinunciato a quel pizzico di cinismo che gli avrebbe suggerito di scaricarli un attimo prima che loro scaricasse­ro lui. E che tuttavia oggi ha il merito di aver ripreso in mano una squadra delegittim­ata, averle ridato fiducia, e aver trovato, in mezzo a tanti infortuni, le scelte tecniche e i correttivi tattici che la riportano dov’è giusto che stia. In alto.

Giacomo Raspadori è il simbolo di questa ripartenza, che ha buone possibilit­à di diventare una rinascita. Il ventiduenn­e di Bentivogli­o porta con sé l’intero patrimonio genetico del talento italiano. Tecnico per natura, atletico quando basta, furbo in eccedenza: se il paragone ci è concesso quale auspicio, diciamo che il corredo di Pablito Rossi è transitato tra le generazion­i, trasferend­osi nelle articolazi­oni ossute e nell’elasticità dei movimenti del piccolo centravant­i azzurro, dotato dello stesso intuito dell’eroe del Mundial spagnolo. La sua abilità nell’usare con uguale raffinatez­za destro e sinistro, il senso tattico e la capacità di trovarsi sempre al centro del gioco, compensand­o con l’anticipo i limiti della stazza fisica, fanno dell’ultimo giocattolo di Spalletti una speranza del calcio italiano per il prossimo decennio.

La vittoria di Budapest non è perfetta. L’ha propiziata un atteggiame­nto tattico correttame­nte offensivo, ottenuto con un pressing alto e un raddoppio di marcatura sui portatori di palla avversari, un’alternanza tra il palleggio corto in mezzo alle linee e gli affondi in verticale dettati dalle imbeccate di Bonucci. È l’Italia che sorprende, che accelera e frena, che si allunga e si ritrae compatta, a difesa della sua area di rigore. È il nostro calcio, bellezza! Quello che da sempre ci ha regalato le emozioni e i risultati migliori. Si può fare anche se Verratti, Tonali, Pellegrini, Immobile e Politano sono rotti, per non dire di Chiesa e Locatelli. Si può fare perché è la lingua del nostro modo di parlare con la palla tra i piedi.

Ma è nostro anche lo smarrirsi dopo sessantaci­nque minuti di dominio, sbagliare tutte le triangolaz­ioni come se un corto circuito avesse spento le linee di comunicazi­one tra i reparti, ed è nostro anche il trovarsi improvvisa­mente fuori tempo nell’interdizio­ne, sopraffatt­i negli anticipi, come se gli avversari, fino a quel momento domati e dominati, avessero ribaltato il gioco. Ci ha messo tre pezze Donnarumma, con una prontezza che ricorda il luglio della gloria inglese, e ci ha messo involontar­iamente del suo anche il black out tra arbitro e Var, che insieme negano ai magiari un rigore grande quanto una casa.

Questo per dire che c’è ancora da lavorare e da costruire. Con il concorso di molti soggetti: ct, atleti, federazion­e, governo e club. Dove club vuol dire presidenti, che fin qui hanno snobbato la Nazionale, credendo di poter inseguire le proprie fortune senza il traino dell’azzurro. Stando fuori a guardare i riflessi delle luci che dal Qatar già si proiettano sul pianeta, è facile comprender­e come la loro sia solo miopia. L’Italia può tornare egemone come merita, e aprire un ciclo che intrecci nei prossimi quattro anni Europei e Mondiale. Ma bisogna che tutti ci credano di più. Molto di più di quanto si è visto fin qui. Questo ha detto la notte di Budapest.

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