Il peso degli Tsitsipas sul talento di Stefanos
Il padre allenatore e la madre ex giocatrice hanno esagerato e il figlio gli ha tirato una pallina contro
In principio fu Stefano Capriati, papà di Jennifer, da lui lanciata giovanissima sul circuito WTA (esordio a 13 anni) tanto da indurre la stessa associazione al varo di una nuova regola che vieteva l'esordio sul circuito alle minori di quattordici anni. Regola che ancora oggi porta il suo nome: "Capriati rule". Venne poi Richard Williams, il "King" Richard recentemente raccontato da Hollywood, il papà di Venus e Serena. Una carriera, quella delle due sorelle, che lui aveva già pianificato ancor prima che nascessero e che accompagnò nei primi passi. La lista è lunga e comprende altri nomi illustri quali Andre Agassi e Maria Sharapova, Naomi Osaka e Andy Murray. Tutti accomunati, in uno o più momenti delle loro carriere, dalla presenza di un genitore nel loro box.
L’ultimo caso è quello di Stefanos Tsitsipas, figlio di Apostolos, da sempre suo coach e sempre più spesso al centro dell'attenzione per i modi "coloriti" con cui è solito seguire le prestazioni del figlio. L'altro ieri, alle prese con un match dentro o fuori contro il russo Andrey Rublev, il box del greco sembrava più simile a una taverna che a un consesso di illuminati tesi a scovare cosa stesse andando storto nel tennis del loro assistito. Tra confabulazioni e richiami, battibecchi e occhiatacce, il senso di papà Apostolos e mamma Julia per il coaching più volte era apparso un po' troppo disinvolto, né il gioco del figliol prodigo sembrava risentirne in termini di
efficacia e risultati. E così ci ha pensato proprio lui, Stefanos, a richiamare tutti a una discrezione più accordata ai gesti bianchi che in campo andava a fatica ricercando: uno sguardo a prendere la mira, lancio preciso e colpo diretto alla balaustra - pianerottolo dove sostavano i suoi genitori. La richiesta è stata soddisfatta, ma non è bastato per evitare una sconfitta che oltre all'eliminazione costerà al greco anche qualche posizione nel ranking.
C'è che a sovrapporre la figura del coach a quella del genitore, restano sempre spigoli e angoli scontornati destinati a non aderire mai tra loro. Per quanto nobili siano le intenzioni, non è l'amore incondizionato l'ingrediente su cui si fondano le relazioni vincenti tra un coach e il suo pupillo. Il tennis poi è l'unico sport in cui l'atleta si trovi a dover pagare direttamente il suo allenatore per sentirsi dire ciò che non vorrebbe mai ascoltare. E sono parole, quelle, facilmente fraintendibili se a pronunciarle è qualcuno che non è legato a te da nessun contratto e che nessun licenziamento può cancellare del tutto. Meglio i ringraziamenti a fine torneo col trofeo in mano: «Grazie ai miei genitori per avermi sempre sostenuto». Nel frattempo quiet, please.
Tanti gli esempi di tennisti “vittime” di genitori, coach e non, oppressivi