Lo Scià giocava a pallone, Khomeini era l’anti-football
La passione dell’Iran per il calcio dal Mundial del 1978 alla rivoluzione che depose Reza Pahlevi e portò al potere gli Ayatollah Oggi il gesto del Qatar contro gli integralisti
Caro Cucci, lei scrive da sempre che lo sport non deve essere mescolato con la politica. Lo ha detto anche Macron, interessato a difendere il ruolo della Francia nella scelta del Qatar. Lo ha scritto lei pochi giorni fa parlando del “Mondiale di Sarkozy”. Ma non era giusta la manifestazione silenziosa degli iraniani nella partita con l’Inghilterra?
Senzio Verri, libero.it
Giusta è ogni manifestazione di pensiero ogni volta che questo viene anche brutalmente oppresso. E tuttavia non sempre il risultato è politicamente utile. La mia esperienza ultracinquantenaria di Mondiali e di Giochi mi permette di sottrarmi al coro dei generosi e dei perbenisti a soggetto. Se è vero che nel 1970 l’Italia fu accolta a pomodorate per essere arrivata seconda al Mundial messicano - sconfitta dal grande Brasile di Pelé e supercompagni - immagino il sentimento è l’accoglienza dei tifosi iraniani dopo il 6-2 inflitto alla loro nazionale dall’Inghilterra. La disfatta dei giocatori silenti ha consentito agli aguzzini di Teheran di trattarli da traditori. E non so cosa gli succederà se cercheranno di tornare in patria.
I “gesti politici“- come l’inginocchiarsi degli inglesi che l’avevano già fatto senza danni agli Europei e trovo che sia la manifestazione meno problematica quando ti impediscono per regolamento la fascia “LOVE” - sono ispirati dai vittoriosi protagonisti di un episodio storico: il 16 ottobre 1968, nello stadio Olimpico di Città del Messico, gli atleti di colore statunitensi Tommie Smith e John Carlos, arrivati primo e terzo nella finale dei 200 metri piani, saliti sul podio per la premiazione e ricevute le medaglie, si girarono verso la bandiera a stelle e strisce e all’inizio dell’inno abbassarono la testa e alzarono un pugno chiuso e avvolto nei guanti neri. Quell’immagine sarebbe diventata una delle più famose del Novecento, simbolo di decenni di proteste per i diritti civili. Era la risposta di vincitori neri all’occasionale trionfalismo sportivo che diventò invece un accorato memento - pochi lo ricordano - di Martin Luther King, assassinato in aprile a Memphis.
Gli iraniani - che prima dell’avvento dello Scià Reza Pahlevi si chiamavano persiani - hanno da sempre legato i loro problemi al calcio che proprio lo Scià aveva promosso sulla scia del nonno - come attività sportiva favorita anche in nome del classico panem et circenses. Il top fu raggiunto con la qualificazione al Mundial argentino del 1978. La nazionale era guidata dal figlio dello Scià Ciro - lo ricordo bene, riuscii a pubblicare una sua intervista - e aveva un campione di lungo corso, “Eski” Eskandarian - vincitore della Coppa d’Asia del ‘76 - che ricordava momenti storici come le trionfali partite delle qualificazioni, in particolare quella del 25 novembre 1977 contro l’Australia: nello stadio di Teheran c’erano ad applaudirli novantacinquemila spettatori. “Eski” ricordava orgoglioso: «Abbiamo vinto 1-0 e ci siamo qualificati. Allora era più difficile, ai Mondiali andavano solo sedici squadre». Il Mundial non andò bene, l’Iran perse con Olanda e Perù e tornò a casa.
Peggio andò allo Scià che di lì a pochi mesi fu deposto da americani e francesi, questi ospiti e amici dell’Ajatollah Khomeini che lo sostituì e reintrodusse il velo, la Shari’a e l’odio per il pallone, popolarissimo perché il capostipite Reza Khan - ispirato dagli inglesi - lo giocava fra il ‘24 e il ‘41 e aveva contagiato i persiani. Primo segno di modernizzazione del Paese. Solo nel novembre 1987, fu permesso alle donne di andare allo stadio, ben coperte e scortate da un maschio. Ci volle una fatwa che per cominciare permetteva alle iraniane di assistere alle partite della nazionale in televisione. Si parlò di Rivoluzione del Calcio. Per esperienza so che il campionato e la nazionale sono amati e seguiti come in Italia. Il calcio iraniano, si dice da sempre, è diverso e superiore a parte l’infelice batosta del Qatar - da quello degli arabi. Infatti gli iraniani sono, come noi, indoeuropei.