Coach Brase «Non voglio atleti robot ma creativi»
Quasi sconosciuto in Italia, l’americano ha trasformato Varese in una squadra che fa paura a tutti: vince da 5 turni di fila ed è terza a sorpresa con Tortona «Mi piace che la squadra giochi liberamente, però sempre con uno scopo. Caruso merita un posto i
In pochi mesi di lavoro ha saputo ridare lustro a una realtà cestistica storica, che da tempo aspettava di tornare a sognare: le 5 vittorie consecutive di Varese parlano chiaro, non accadeva dal 2017/18. L’Openjobmetis lavora seguendo la filosofia di Matt Brase, 40 anni, nativo di Tucson, un coach che in pochi conoscevano in Italia, tranne i dirigenti Luis Scola e Michael Arcieri, che hanno deciso di puntare sul nipote di Lute Olson, lo storico tecnico che guidò gli Usa alla vittoria dei Mondiali nel 1986 e membro della Hall of Fame.
Proprio il nonno lo ha iniziato al mestiere nello stesso college dove Brase - che piace per quell’aria da bravo ragazzo degli anni 50 con la brillantina sui capelli stile Happy Days - è stato prima di tutto giocatore coi mitici Wildcats. Da allenatore vanta un titolo vinto nella G-League (2012) alla guida dei Rio Grande Valley Vipers, club affiliato ai Rockets, poi quattro anni di assistentato nella NBA.
«Ho avuto la fortuna di lavorare per molti grandi coach e di imparare come essere un leader e un insegnante efficiente. Ho iniziato all’Università dell'Arizona, dove allenavo con mio nonno. Da lì in poi ho continuato al fianco di altri grandi tecnici: Russ Pennell, Kevin McHale, Nick Nurse, Mike D'Antoni e Chauncey Billups. Ciò che ho appreso da tutti loro ha avuto un impatto sulla mia carriera ed ha contribuito a modellare il modo in cui alleno e insegno».
FILOSOFIA. Una filosofia leggera, che piace ai giocatori, perché lascia le briglie abbastanza sciolte.
«Mi piace che la nostra squadra giochi liberamente ma con uno scopo. Abbiamo determinati giochi che preferiamo in difesa e in attacco, ma molti modi per arrivarci. Mi piace che i nostri giocatori siano creativi e approfittino di come l'altra squadra difende per trovare soluzioni su come ottenere ciò che vogliamo. Voglio che i miei siano atleti che costruiscono loro stessi il gioco, e non robot con regole rigorose e assolute da eseguire».
Un’opportunità nata attraverso canali NBA che il club conosce bene grazie a Scola, per anni nella lega Usa. «Varese ha contattato i Trail Blazers per chiedere il permesso di parlare con me. Una volta concesso, ho avuto varie conversazioni con il gm Arcieri e Scola. Così mi è nato dentro il desiderio di fare quest’esperienza, sentivo di volere far parte di questa realtà. E con il loro carisma è stato più facile».
Ma come ha fatto a trasformare Varese in una realtà così vincente?
«È uno sforzo di gruppo che inizia dai giocatori e discende poi a tutta l’organizzazione: ogni membro svolge un ruolo fondamentale per il nostro successo e quando un gruppo è unito allora si verificano risultati positivi».
C’è un leader riconosciuto in squadra?
«Ho imparato da nonno Olson, oro iridato nell’86 con gli USA»
«Ferrero è il nostro capitano e leader. Tiene unita la squadra e si concentra a farlo sia dentro che fuori dal campo. Durante la partita i nostri play, Colbey Ross e Giovanni De Nicolao, sono dav
vero bravi a comunicare con la squadra e darle organizzazione».
La Nazionale sta cercando disperatamente un pivot che faccia la differenza: Caruso ha i requisiti per diventarlo?
«Secondo me sì, Guglielmo è stato fantastico in questa prima parte di stagione. Ha mostrato una buona crescita dal mio arrivo. Si adatta bene al nostro sistema e continuerà a migliorare. Penso che meriti un ruolo in Nazionale, i suoi progressi non sono certo finiti qui».
Che ne pensa del clima che si respira nei palasport italiani?
«Apprezzo molto l'amore e l'atmosfera che i tifosi creano per noi, le partite casalinghe sono state incredibili: abbiamo dei fan che ci supportano in maniera eccezionale».