Per quei ragazzi non era un gioco
Usa allegri e leggeri, iraniani tormentati dai dubbi. E la Cnn parla di minacce alle famiglie
Una squadra giocava, l’altra faceva sul serio, troppo sul serio. Gli Stati Uniti non avevano nell’anima, come invece aveva l’Iran, la zavorra di vicende umane enormi, di una vigilia di piombo, del sentirsi stranieri in terra straniera nonostante la vicinanza geografica e culturale fosse dalla loro parte. In questo momento il Qatar è il regno del calcio, non un Paese del Medio Oriente. Occidentale dentro.
E poi, diciamolo, i ragazzi americani erano superiori. Più veloci, più tecnici. Sentivano loro il mondo, mentre il mondo degli avversari è di altri, di una casta un po’ sacerdotale, un po’ militare, molto retriva. Se l’Iran ha dato la sensazione, vaga e breve, di poter arrivare al pareggio che avrebbe invertito la qualificazione è stato solo perché nei finali di partita la disperazione conta più della bravura e la testa bassa può rendere più della guardia alta.
La partita incastrata in una lunga, tristemente lunga vicenda di tensioni e reciproche paure tra due Paesi distanti quanto possono esserlo le visioni della vita è stata distorta in qualcos’altro lontano da Doha, dove invece tutto si è concluso con gli abbracci. Negli Stati Uniti in piccola parte, con quella bandiera iraniana oggettivamente offesa ed esposta al disprezzo dei social in modo inelegante, anche se con la buona intenzione di appoggiare la ribellione per le libertà che in particolare ribolle a Teheran. In Iran molto, perché ogni volta che s’incrocia la strada con gli Stati Uniti riemerge la propaganda intorno al demone imperialista. Conterebbe poco se non ci andassero di mezzo le esistenze di persone normali e anche di idoli delle folle come questi calciatori.
Costretti a cantare l’inno nazionale che avrebbero voluto boicottare. Non è chiaro se Sardar Azmoun, forse il miglior giocatore della squadra, abbia tenuto duro. Intanto è stato tolto dal campo a metà partita, la qual cosa in sé non significa molto visto che l’Iran non riusciva a spingersi oltre la trequarti. Secondo la Cnn, che cita come fonte un responsabile della sicurezza del Mondiale, chi ha cantato ha cantato perché in un incontro con la squadra le guardie della rivoluzione inviate a sorvegliare la fedeltà alla causa degli atleti avrebbero minacciato rappresaglie nei confronti delle famiglie. Il ct Queiroz nega. Atmosfera pesante, comunque. Ma siccome a una faccia feroce si accompagna sempre una mano tesa, dopo aver annunciato la liberazione di 700 manifestanti il regime iraniano, scrive L’Équipe, ha lasciato uscire dietro cauzione anche due ex nazionali, Voria Ghafouri e Parviz Boroumand, colpevoli di aver appoggiato le proteste. Ghafouri ha confermato inviando una foto sul cellulare di Andrea
Stramaccioni, commentatore della Rai.
Gli iraniani sono andati in Qatar per giocare, persino loro. Sapevano di sperare invano. Non si riesce a giocare quando si lascia alle spalle un Paese insanguinato, quando non sai che cosa stia succedendo a compagni di vita e figli. Non avevano neppure l’affetto compatto e coerente di un popolo a sostenerli: qualcuno li ha amati, qualcuno li detestava per il semplice fatto che erano lì, a portare il marchio di una dittatura. Racconta la fonte della Cnn che ieri il governo ha dovuto ingaggiare centinaia di figuranti per simulare un sostegno che non c’era. Chi lo sa: superati i controlli di sicurezza minuziosi e rafforzati, sembravano genuinamente entusiasti e rumorosi i tifosi vestiti di bianco, rosso e verde. Ma si era in Qatar, per un mese enclave calcistica in cui ogni cosa può essere finta e sembrare reale. Anche i fan statunitensi. Che però alla partita esibivano una cultura del simbolo tutta occidentale, probabilmente genuina. Chi camuffato da pellerossa, quindi da tradizionalmente perseguitato. Chi con la fasce arcobaleno, emblema della società plurale. E chi vestito da Capitan America, il quale, come si sa, è stato disegnato durante la Seconda Guerra Mondiale e nella copertina del numero d’esordio mollava un cazzotto a Hitler.
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