«Ora Berrettini pensa positivo»
Il mental coach Massari ci spiega come Matteo approccia il primo Slam «Viene dall’anno peggiore per infortuni, ma ha lavorato per spostare l’attenzione su altro La tensione non lo sommerge»
«Quando si arriva al top non è più solo questione di servizio e dritto, ma è la capacità di sapersi gestire a fare la differenza». Stefano Massari, mental coach di Matteo Berrettini e di altri atleti d’eccellenza, analizza l’approccio del numero 1 d’Italia al primo Slam della stagione. «Ricordo l’esordio di Matteo agli Australian Open nel 2018, gli dissi di divertirsi e di lottare con tutte le forze fino alla fine».
Quando è stata l’ultima volta che ha sentito Matteo e come lo ha trovato?
«Tre giorni fa e l’ho trovato molto bene. Senza dubbio è teso, il che non può che essere positivo visto che si tratta di una tensione che non lo sommerge e della quale è perfettamente consapevole. Il torneo è uno dei più importanti della stagione e da questo stato d’animo si può trovare la giusta energia per essere focalizzati al meglio su ciò che conta in campo».
I numerosi infortuni della passata stagione non possono non influire sull’approccio alle partite. Come si scacciano i cattivi pensieri?
«Le partite giocate nella United Cup sono state di altissimo livello e so che questo gli darà tanta fiducia. L’anno da cui è reduce è stato senza dubbio il peggiore in termini di infortuni ma abbiamo imparato a pensare in modo positivo, soprattutto per il futuro.
Adesso come sta?
«Bene, e mi auguro con tutto il cuore che nel 2023 riesca a giocare almeno settanta partite. Il corpo potrà lanciare dei segnali, ce lo aspettiamo e abbiamo lavorato con l’obiettivo di portare il pensiero su altre cose. Qualora il segnale dovesse essere più forte di un lieve fastidio, ragioneremo in un altro modo».
Torniamo alla finale di Wimbledon 2021 persa in quattro set con Djokovic. Quanto è stato complicato superare quella delusione dal punto di vista mentale?
«Matteo era già entrato nella storia del tennis italiano approdando in finale. Quella partita fu preparata in modo eccellente e giocata benissimo, nonostante un problema alla gamba. Chissà che l’aver tagliato un traguardo già prestigioso non possa aver influito sulla ricerca di quel pizzico di cattiveria in più. Nessuno ne ha fatto un dramma ma il dispiacere sì, era forte. Matteo è un atleta fantastico e come tale vuole vincere sempre. Ovviamente non dimentichiamoci dell’avversario, quel Djokovic che a mio avviso è ancora il più forte di tutti».
Il tennis italiano è ricco di talenti, alcuni giovani e alle prime esperienze. Cosa direbbe a Lucrezia Stefanini e Mattia Bellucci, all’esordio a Melbourne?
«Lucrezia la conosco bene, Mattia non ancora. Spero che vivano il momento con tanta felicità, perché trovarsi lì è tanto raro quanto bello. Affronteranno fasi complesse, nei match ma anche in carriera, e in questi casi l’entusiasmo può concretamente essere d’aiuto. Ricordo l’esordio agli Australian Open di Matteo nel 2018, contro Mannarino.
Il francese era un grande giocatore e ci demmo l’obiettivo di non uscire mai dal match con la testa, lottando fino all’ultimo punto. Si può perdere, certo, ma sempre con l’onore delle armi».
La pressione mediatica sugli atleti è sempre più forte. Da cosa dipende secondo lei?
«I social hanno stravolto il modo di vedere la vita. Tutti parlano di questi ragazzi, non più solo i giornali o la televisione. Si entra nelle loro vite più del dovuto, senza mai farlo in punta di piedi. Pietro Trabucchi, psicologo dello sport e grande esperto sul tema, ha scritto che le nuove generazioni si stanno abituando a vivere certi tipi di emozioni senza faticare. Tutto questo è un allenamento negativo alla resilienza, è una soddisfazione effimera e fugace, figlia dei device digitali».
«Ha giocato una United Cup ad altissimo livello ed è in fiducia»
Come si rimedia a questa situazione?
«La Federazione, attraverso il grande lavoro di Lorenzo Beltrame e Danilo De Gasperi, è molto sensibile al tema della supervisione mentale e della vulnerabilità digitale. Il modo di stare in campo dipende spesso da ciò che accade fuori. Ad alto livello gestirsi è difficile, ma fa la differenza».
«I social? Pesano Si entra nelle vite degli atleti e mai in punta di piedi»