Corriere dello Sport

Ancelotti solidale con Hector Cuper «Il nostro è stato un lavoro enorme»

Milan e Inter si contendera­nno la finale di Champions come 20 anni fa Due partite destinate a cambiare a lungo le sorti sportive dei club

- Di Bruno Bartolozzi

Tutto si è compiuto nell’arte del montaggio. Se la coppia dei derby di Champions fra Inter e Milan, 0-0 in casa del Milan, 1-1 in casa dell’Inter, fosse stata disposta al contrario sarebbe stata un’altra storia. Sarebbe persino bastato il regolament­o attuale per un finale diverso. E invece ricorderem­o una semifinale ricca come un’Iliade, ma asciutta come un tiro ai dadi. È stato tutto in quel rotolare, semplice e assurdo. È stato questo il derby del 2003. La prova? Galliani, l’amministra­tore delegato rossonero, qualche secondo dopo la fine della sfida si affrettò a dire: «Ha meritato il Milan». Lo disse subito perché sapeva di mentire. Ma celebrazio­ni e disperazio­ne, ora, sono solo il lascito eroso dal tempo.

Milan e Inter arrivano al derby dei derby con il destino già segnato, senza saperlo. Il Milan recupera, contro l’Ajax, una semifinale ormai quasi sfuggita di mano, l’Inter conquista a Valencia una qualificaz­ione che ha le stimmate della maledizion­e. Bobo Vieri segna all’andata e segna subito al ritorno. Ma nel finale, mentre resiste la squadra di Hector Cuper (che proprio allenando il Valencia perse una finale di Champions ai rigori e a San Siro), John Carew e Marco Materazzi, ciascuno 1,93 per oltre 90 chili, franano sulla gamba del grande attaccante e lo mettono fuori combattime­nto. Il più forte calciatore della semifinale resterà a guardare. Sull’aereo della squadra, di ritorno dalla Spagna, viene fatta un’eccezione. Vieri non è seduto con i compagni, ma al fianco della sua fidanzata di allora, Elisabetta Canalis, in prima fila, con la gamba immobilizz­ata e lo sguardo perso.

Le squadre fortunate lo sono più o meno alla stessa maniera, quelle sfortunate non terminano mai di esserlo. E lo sono in tanti modi. Quell’Inter aveva perso uno scudetto a Roma, il 5 maggio, quando Calciopoli era un fantasma senza corpo, ma con tanti cigolii.

Hector Cuper, hombre vertical, si gioca la sua carriera contro Carlo Ancelotti, altro hombre vertical, avvinti in un duello che lascerà in piedi uno solo dei due. Lo sente Ancelotti che prima delle due sfide ammonisce: «Chi vin

L’abbraccio tra Carlo Ancelotti e Rino Gattuso: rapporto poi incrinatos­i ce sarà solo andato in finale, ma sia io che Hector abbiamo fatto un lavoro immenso». A quei tempi ero team manager all’Inter e i fatti vissuti si sono succeduti in panchina davanti a me e negli spogliatoi, a contatto con protagonis­ti e avversari, fotogramma per fotogramma, parola per parola. Come quelle di Ancelotti che conoscevo fin dai temi della Roma e mi disse a risultato acquisito: «Non potevo tacere, il calcio è diventato una malattia che macina gente sana e butta a mare la fatica, come nessuna altra attività al mondo. Chi ha davvero perso e chi ha davvero vinto? Lo dice il risultato. Ma la sconfitta non significa dannazione». Carlo il saggio, Carlo il vincente, Carlo il fortunato.

La maledizion­e insegue l’Inter sotto ogni forma, anche sfidando le nostre consapevol­ezze. Massimo Moratti, il presidente più amato, sente, prima dell’inizio dell’andata, di dover fare un discorso alla squadra. Fatto inusuale e drammatico. «Sono qui a spiegarvi, a voi che venite da tante e diverse parti, e che vivete la squadra come una vostra comunità, cosa significan­o Inter e Milan. E chi e perché deve vincere.

Hernan Crespo e Paolo Maldini

Portiamo dentro di noi profezia e amore. Dignità e storia». Non fu un discorso da presidente, ma da Re. Da re filosofo. Il destino di quel regno era, però, segnato, anche se di lì a qualche anno ne sorgerà uno nuovo e vincente. E l’Iliade diventerà Eneide. Come dice il grande maestro Daniele Gatti, tifoso del sublime musicale nerazzurro, l’Inter è una passione che non arriva all’amplesso, è un amore infelice. Quella fu la messa in scena, su un campo di calcio, del “Tristano e Isotta”. Con tanto di pozione e sortilegio. Moratti prima della gara di andata si avvicina e dopo il discorso da Re, diventa un Principe settecente­sco, tra modernità e antichi saperi, affidandos­i ad un Cagliostro. Che alchimizza per la squadra una pozione da spargere come olio santo sulla testa dei calciatori. La preziosa ampolla viene consegnata la sera alla Pinetina, chiamo il Capitano Zanetti, i veterani della squadra, fra cui Di Biagio, e comincia l’unzione. L’odore non è da olio santo, anzi. Ma si fa di necessità virtù. La consegna è non lavarsi fino alla gara. Sarà dura, ma sarà fatto.

Durante il primo tempo il Milan soffre e nell’intervallo la scena indimentic­abile. Nel vecchio stadio di San Siro gli spogliatoi delle due squadre erano praticamen­te attaccati. Di fronte, separati dal corridoio che poi conduce all’ingresso del tunnel per il campo, c’erano le due stanzette dei dirigenti. Scende dalla tribuna una furia urlante. E’ Silvio Berlusconi. Una trentina di persone, fra funzionari, dirigenti, servizio di vigilanza delle due squadra, assiste alla scena. «Basta, che modo di giocare è questo? Ci vuole Serginho in campo. Capite? Ci vuole Serginho. Diteglielo a quello lì». Sarebbe Ancelotti, quello lì. Le voci continuano dallo stanzino dei dirigenti del Milan. Come se fossero di fronte a noi, tanto è lo schiamazzo. Dalla porticina esce di corsa il vice di Ancelotti, Mauro Tassotti e entra nello spogliatoi­o della squadra. Di certo va a riferire ad Ancelotti la sfuriata del presidente. E infatti

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