ROMA CAPITA
È la prima delle tre finali europee delle italiane: la squadra di Mourinho gioca per la storia I giallorossi inseguono il secondo sogno europeo di seguito
L’argento della Coppa luccica su Hosok Tere, la piazza degli eroi, che è un monumento ai caduti ungheresi per la patria. Sulla collina di Buda invece, davanti alla chiesa di San Mattia che affaccia magnificamente sulla città, hanno piazzato una copia gigante del calice dei vincitori, disponibile per il pellegrinaggio fotografico: Coppa più Danubio a vista, che vuoi di più? I tifosi del Siviglia, ieri già numerosi per le strade di Budapest, guardano quell’oggetto come se fosse un amico che incontrano con piacere immutato di tanto in tanto. I romanisti viceversa lo bramano intensamente, divorati dalla passione che è un contenitore di amore e ansia, di illusione e timori.
AMBIZIONI. E’ inutile raccontarsi il contrario: per il Siviglia la finale è una storia, certo importante perché vale la differenza tra una Supercoppa europea con Champions League e il nulla internazionale, ma per la Roma essere a Budapest significa La Storia, come direbbe José Mourinho, ormai al passo d’addio. La possibilità di vincere in due anni due coppe europee per un club che in tutta la propria vita ne aveva giocate appena tre è la soglia che conduce dentro a un ciclo inimmaginabile e comunque inedito. Oggi è difficile stabilire se l’Europa League rappresenti, eventualmente, il punto più alto di sempre. In fondo la Roma ha vinto anche tre scudetti. Ma se in questo momento chiedeste a un romanista, Sareste disposti a non giocare questa finale pur di avere la sicurezza di un piazzamento Champions?, vi risponderebbero di no in 20.000, quelli che in queste ore stanno invadendo Budapest, più i 54.000 che riempiranno l’Olimpico per una partita da seguire attraverso i maxischermi. Lo sport è fatto per competere. E chi compete vuole arrivare primo.
CONDIZIONI. Non è stato semplice trascurare il campionato, che avrebbe lasciato un corridoio più confortevole verso l’Europa dei migliori. Ma Mourinho, che punta al ventisettesimo trofeo della carriera e al record assoluto di sei coppe europee vinte da allenatore, ha capito strada facendo che si stavano creando i presupposti per l’impresa sportiva. Con tanti saluti ai ragionieri del calcio moderno. Quando cadono una dopo l’altra Barcellona, Arsenal, Manchester United e Juventus, ciò che a bocce ferme sembra impossibile si avvicina improvvisamente. E non voltarti dall’altra parte. La finale con il Siviglia, padrona di casa sia per calendario sia per pedigree, è lo step definitivo per allontanare il passato vittimista, che a Roma chiamano “mainagioismo”, e accettare l’onere di diventare grandi. Se è vero che gli spagnoli sono convinti di vincere, come ha ammesso candidamente il presidente José Castro, un altro José conosce i meccanismi per annullare il teorico gap. Non c’è da avere paura quando hai in panchina uno come Mourinho. E il Normal One che allena il Siviglia, il terzo José coinvolto, è a sua volta consapevole che in una finale sarebbe stato meglio affrontare un collega meno preparato a certi eventi. In fondo il signor Mendilibar, chiamato dall’ex romanista Monchi al capezzale di una squadra stravolta da un
Il Siviglia abituato all’Europa League ma per la Roma vale la Storia