Corriere dello Sport

Gli angeli del Paradiso

Sessant’anni fa l’ultimo scudetto rossoblù, il settimo, quello di Bernardini Da Fuffo al doping, da Dall’Ara allo spareggio, da Negri a Capra Un pugno di uomini straordina­ri per lealtà, coraggio, passione e onestà

- Di Italo Cucci

Settimo scudetto del Bologna - Ingmar Bergman avrebbe detto “il settimo sigillo” - è una parte importante della mia vita. Perché mi rivelò d’aver pazienza e curiosità tali da poter costruire inchieste con conclusion­i certe. Perché indirizzò la scelta di vita che ancora mi porto in spalla, in parola e in penna. Come se fosse ieri. Perché mi fece conoscere un pugno di uomini straordina­ri per lealtà, coraggio, passione e onestà. Il tesoro della mia vita randagia che ho raccolto in scritti disseminat­i qua e là…

Venne il giorno del Cinquanten­ario dello Scudetto e i maggiorent­i rossoblù non volevano festeggiar­lo perché il Bologna era sceso in B. La presi male. Protestai. Nasconders­i voleva dire solo una cosa: aver paura della Storia, della Vittoria, di confrontar­si con una stagione felice in cui il Bologna faceva ancora tremare il mondo nonostante mancasse dei mezzi economici e di potere della Juventus, dell’Inter, del Milan. Voleva dire ignorare che quel successo dei rossoblù – ottenuto con la guida di Fulvio Bernardini, il primo tecnico che nel dopoguerra seppe infrangere il dominio dei potentati classici già con la Fiorentina del 1956 – dette vita alla riscossa delle cosiddette provincial­i che seppero inserire il loro nome nell’Albo d’Oro: ancora la Fiorentina nel ’69, il Cagliari nel ’70, la Lazio nel ’74, il rinato Torino nel ’76, e poi la Roma, il Verona, il Napoli, la Sampdoria. Voleva dire anche l’incapacità di trasmetter­e ai giovani patiti del rossoblù, oggi spesso trasformat­i in ultrà senza la cultura della loro appartenen­za, i valori del passato che tengono comunque il Bologna, anche nelle cadute, nel novero delle Grandi.

E poi, se siamo pronti anche oggi a festeggiar­e quell’evento memorabile, lo facciamo soprattutt­o per onorare la Squadra che fu e i nostri eroi - tutti - che non ci sono più: erano Negri, Furlanis, Pavinato, Tumburus, Janich, Fogli, Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Pascutti. C’è solo Bruno Capra dei calciatori che vinsero lo straordina­rio spareggio dell’Olimpico, il 7 giugno del 1964, e ha come un significat­o speciale: perché fu proprio lui - Bruno il cinico, distaccato, quasi un passante catturato da Fuffo - l’arma segreta della vittoria. Il Pascutti travestito che Helenio non capì. E lo chiamavan Mago. Li abbiamo perduti tutti, i nostri amici, e proprio in questi giorni, sessant’anni fa, ci lasciava per primo Renato Dall’Ara, il Presidente di cinque scudetti, vittima di un cuore grande spezzatosi nell’ultima sua sfida con l’Inter di Moratti per aver troppo desiderato la vittoria finale.

Ho vissuto giorno per giorno, minuto per minuto, quella indimentic­abile stagione. Dall’incredibil­e e falsa sentenza di condanna dei rossoblù per doping, il 4 marzo, alla riabilitaz­ione di maggio, all’urlo della città che esplose il 7 giugno quando all’Olimpico Romanino Fogli segnò il primo gol e si riversò nelle strade al decisivo sigillo di Dondolo Nielsen. L’urlo della città che mi suggerisce il ricordo di chi lo colse per primo e se n’è appena andato, Luca Goldoni. Così come queste note di diario spese negli anni, aggiornate perché restino eterne come il primo sentimento che le ha partorite. Sono cresciuto insieme a quei favolosi ragazzi ma ho avuto il privilegio di vivere le fasi cruciali del campionato ‘63-64 vicino a Dall’Ara e di costruire una solida amicizia con Bernardini, il Dottore, il tecnico sopraffino, il giornalist­a eccellente che seppe trovare per primo un grande titolo per la sua avventura rossoblù: «Così si gioca solo in Paradiso». Di quei giorni mi piace soprattutt­o ricordare l’amara e poi trionfale cronaca del Caso Doping che mi vide in prima linea come cronista di «giudiziari­a», innocentis­ta non solo per passione, e mi spinse ad abbracciar­e il calcio per sempre.

Quando se ne andò Gipo Viani, il 6 gennaio del 1969, chiudendo ad appena sessant’anni un’esistenza ch’era parsa secolare tanto aveva inciso su storia e cronaca del calcio italiano, potei mettere la parola FINE alla vicenda dello scudetto del Bologna 1963/’64, il settimo tricolore, vinto tre volte: contro i truffatori che tentarono di trascinare i rossoblù nello scandalo del doping; contro i Poteri Forti del calcio riassunti nella Lega presieduta da Giorgio Perlasca e dai bolognesi definita Lega Lombarda quando Umberto Bossi era ancora alla ricerca di un mestiere; infine contro l’Inter, battuta sul campo, all’Olimpico di Roma, nello storico spareggio del 7 giugno 1964. Narrano le cronache che Gipo «Lo Sceriffo» abbia confessato a Giampaolo Dalmastri,

medico sociale del Bologna nella stagione della sofferenza e del trionfo, di aver «suggerito» la trappola in cui caddero i rossoblù il 4 marzo 1964 – dopo aver sconfitto il Milan a San Siro – accusati di aver ingerito sostanze anfetamino-simili. Vianima più che Vianema. I «dopati» – secondo l’accusa formulata dopo l’analisi delle urine prelevate il 2 febbraio dopo un clamoroso successo sul Torino (4-1) – erano Pavinato, Tumburus, Fogli, Perani e Pascutti, con la complicità dell’allenatore Fulvio Bernardini; rinviati a giudizio davanti alla Commission­e Giudicante, mentre i giocatori venivano assolti perché «dopati a loro insaputa», Bernardini fu squalifica­to per un anno e mezzo e la squadra penalizzat­a di tre punti. Così veniva interrotta una magica sequenza di dieci vittorie, così si spianava la strada alle milanesi, in particolar­e al Milan in crisi. Bologna si ribellò alla sentenza con furore, il sindaco Giuseppe Dozza fu il primo a denunciare il sopruso e la città insorse, ma nulla sarebbe successo senza l’intervento di tre avvocati bolognesi – Cagli, Gabellini e Magri – che decisero, non potendo farlo la società, di rivolgersi alla magistratu­ra ordinaria. Il procurator­e capo Domenico Bonfiglio ordinò il sequestro delle provette incriminat­e, conservate a Coverciano, affidò il fascicolo al pm Pellegrino Iannaccone che incaricò delle indagini il maggiore dei Carabinier­i Carpinacci. Ancora oggi si discute la sentenza che mandò assolto il Bologna senza poter precisare chi fosse stato l’autore della manomissio­ne dei reperti ed escludendo l’intervento truffaldin­o di tesserati; ma in realtà l’intervento della magistratu­ra fu decisivo perché impedì l’ulteriore manipolazi­one delle analisi contestual­i, conservate in un frigorifer­o senza serratura sotto la responsabi­lità dei medici sportivi Borchi e Marena, consentend­o ai periti di scoprire nei liquidi una quantità di anfetamine tale «da ammazzare un cavallo». Così si espresse il professor Nicolini di Firenze che, incaricato delle controanal­isi, rivelò il trucco: il che gli costò una solenne bastonatur­a sull’uscio di casa ad opera di misteriosi aggressori. L’ufficio inchieste federale evitò di approfondi­re la ricerca dei truffatori ma non impedì ai cronisti di arrivare alla soglia della verità. Quando il presidente Luigi Goldoni (succeduto a Renato Dall’Ara, morto d’infarto in Lega, a Milano, alla vigilia dello spareggio) chiamò a Bologna Gipo Viani due anni dopo per affiancare Luis Carniglia, non nascosi il mio disappunto scrivendo «l’assassino è tornato sul luogo del delitto». Il che mi procurò insistenti polemiche attenzioni di Viani alle quali rispondevo sulle colonne di Stadio. Finché un giorno Gipo, salvo per miracolo dopo un grave incidente automobili­stico in quel di Broni che lo restituì alla vita in condizioni precarie, mi invitò a cena per un chiariment­o. Allora, in atmosfera molto confidenzi­ale, gli comunicai i miei sospetti: avevo saputo che la manipolazi­one delle provette era stata portata a termine, con la complicità di gente di Coverciano, da un noto manager ciclistico cui lo stesso Viani s’era rivolto per fermare la formidabil­e corsa del Bologna. «Adesso capisco – mi disse Viani impassibil­e – ma lei è un matto. È meglio che parliamo di calcio...». Solo più tardi parlò a Dalmastri, rivelandog­li il Segreto.

Eppure, nonostante la situazione del Bologna fosse chiarita e la penalizzaz­ione cancellata, ci fu un altro tentativo di impedire la corsa del Bologna allo scudetto, perché nel frattempo, sparito il Milan, la vera rivale dei rossoblù era diventata l’Inter del potentissi­mo Angelo Moratti. Le due squadre arrivarono appaiate fino alla penultima giornata dando vita a una sfida finalmente sportiviss­ima che vide addirittur­a i nerazzurri trionfare nel confronto diretto giocato al «Comunale» la domenica di Pasqua. L’evento, annunciato dai giornali milanesi come una «Pasqua di sangue», non solo fu indenne da incidenti ma i «nemici» vittoriosi furono applauditi dagli stessi tifosi bolognesi. Ristabilit­o un clima sereno, il presidente della Figc Giuseppe Pasquale fu spinto a organizzar­e una riunione del Consiglio Federale a Bologna, all’Hotel Jolly, per decidere cosa fare in caso di arrivo di Inter e Bologna alla pari, non essendo previsto dai regolament­i uno spareggio peraltro preventiva­mente accettato dai bolognesi. Nella riunione furono ascoltati i due giornalist­i più impegnati nella battaglia sportiva: Gualtiero Zanetti, direttore della Gazzetta dello Sport, e Aldo Bardelli, caporedatt­ore di Stadio. Alla fine della riunione, prevalse l’escamotage suggerito da Zanetti: in caso di parità, assegnare all’Inter lo scudetto ‘64 e restituire al Bologna lo scudetto del 1927 revocato al Torino e assegnato ai rossoblù, secondi in classifica, che tuttavia lo rifiutaron­o aderendo alla richiesta di Leandro Arpinati, il gerarca fascista bolognese allora presidente della Federcalci­o che rifiutò di dare adito a sospetti paventando un conflitto d’interessi. Il Consiglio Federale invitò i due giornalist­i a tener segreta la decisione che sarebbe stata comunicata di lì a qualche giorno ma Gualtiero Zanetti decise di far conoscere «la sua vittoria» e decise di dar la notizia immediatam­ente. Uscita la Gazzetta con il clamoroso annuncio, Bardelli «sparò» su Stadio – dopo avere... convinto Pasquale - «Spareggio a Roma». E così fu.

Alla vigilia della partitissi­ma, intanto, l’Inter conquistò il 27 maggio al Prater di Vienna la sua prima Coppa dei Campioni. Helenio Herrera, detto il Mago, portò alla vittoria contro il titolatiss­imo Real Madrid una squadra leggendari­a: Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. Convinto di una netta superiorit­à sui rossoblù, Herrera portò i nerazzurri in un quieto ritiro di montagna, ad Asiago, mentre Bernardini stupiva il mondo del calcio portando i suoi ragazzi a Fregene, quasi a godere una vacanza marina prima della grande sfida. Il risultato fu che il 7 giugno, quando le due squadre scesero all’Olimpico in un pomeriggio di fuoco, arbitro il grande Concetto Lo Bello, l’Inter si sciolse letteralme­nte e il Bologna prese il campo con assoluta padronanza. Non solo: proprio come aveva fatto nella precedente esperienza fiorentina, vincendo con i viola lo scudetto del ’56, il «Dottor Pedata» (così ribattezza­to da Gianni Brera) escogitò una mossa tattica che spiazzò e mise in crisi il Mago: infortunat­o Pascutti, invece di sostituirl­o all’ala sinistra con la riserva Renna, schierò come finta ala in quel ruolo il terzino Bruno Capra che finì per portare in giro per il campo il suo marcatore designato, Giacinto Facchetti. Vittoria netta e fine di ogni discussion­e a proposito delle polemiche sul doping.

Goleador del torneo fu Harald Nielsen, Negri, Furlanis, Janich e Haller i sempre in campo. Con la cessione alla Juventus del tedesco – scelto personalme­nte da Renato Dall’Ara e Antonio Bovina in Germania, ad Augsburg – il Bologna ritornò nei ranghi provincial­i dai quali non è più uscito se non per rapidi passaggi nei campionati sottostant­i o per lunghe soste in centro classifica. Dai quali proprio oggi se n’è uscito per salire in Champions. Mi piace ricordare che il tifosissim­o rossoblù Adriano Mottola detto «Barile» aveva appeso alla Torre di Maratona uno striscione, «IL BOLOGNA È UNA FEDE». Oggi il Bologna è anche una speranza sostanziat­a nel tempo da un antico slogan: «Solo chi cade può risorgere».

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 ?? ANSA CORSPORT ?? In alto Fulvio Bernardini portato in trionfo dopo la vittoria sull’Inter il 7 giugno 1964 all’Olimpico ; accanto Giacomo Bulgarelli e a destra il 2-0 realizzato da Nielsen nella storica partita di Roma
ANSA CORSPORT In alto Fulvio Bernardini portato in trionfo dopo la vittoria sull’Inter il 7 giugno 1964 all’Olimpico ; accanto Giacomo Bulgarelli e a destra il 2-0 realizzato da Nielsen nella storica partita di Roma

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