Il demonio e i negozi aperti nei festivi
Vorrei dire a Michele Cucuzza, che su questo stesso giornale ha scritto della sua opinione favorevole alla apertura dei supermercati la domenica e nelle cosidette feste comandate, definendola non figlia del demonio, che ha pienamente ragione: non è il padrone del regno delle tenebre (ammesso che esista) che la ordina, ma sono entità, per così dire, molto più palpabili e terrene: le grandi imprese o multinazionali del commercio. Del resto il collega ex giornalista Rai, prima di esporsi così, forse, si sarebbe dovuto consultare con papa Francesco, che ha fatto della lotta al consumismo esasperato, dell’affermazione della sobrietà di vita e del sostegno ai diritti del lavoratori una specie di crociata personale, rileggendosi contemporaneamente il testo biblico sulla creazione del mondo, nella quale Dio scelse la domenica come giorno di riposo per se stesso e per l’umanità.
Non so se Cucuzza è religioso e praticante. So che molti capitani di impresa o di quella borghesia religiosissima che frequenta regolarmente le chiese, hanno in realtà scelto un altro dio, che si chiama denaro. Il motivo vero o principale che conduce all’apertura festiva, non è quello di rendere un più esteso servizio alla clientela e seguirne gli stili di vita, ma è la speranza di aumentare i guadagni delle imprese. E, per interloquire ancora cordialmente con Cucuzza, a proposito degli stili di vita, non sono essi a imporsi sull’assetto dell’apparato produttivo (nel quale, nei Paesi ricchi, il commercio ha assunto negli ultimi decenni un grande peso) ma è quest’ultimo (e i suoi proprietari) a imporre modalità di consumo, costumi e la cultura che li sottende.
La genesi originaria dei supermercati, evoluti poi in forma di centri commerciali, ipermercati e quantaltro, non è fondamentalmente determinata dall’obiettivo del risparmio del cliente (chi li frequenta, quindi ormai tutti noi, sa che forse risparmia sul singolo prodotto, ma alla fine spende di più perché ne compra di più) ma da quello di maggiorare il fatturato di chi li detiene.
Essi non vanno criminalizzati in una sorta di ritorno al luddismo. Ma va riconosciuto che la loro moltiplicazione (che ha fatto quasi ovunque tabula rasa del piccolo commercio) è stata inefficace, almeno negli ultimi anni, per calmierare il costo della vita, incentivare l’aumento dei consumi, contenere l’effetto della crisi economica. Se volete un esempio, basta guardare alla nostra piccola Umbria; è la regione che detiene il più alto numero di grandi centri di vendita in rapporto a quello degli abitanti, ma è anche la regione che ha subito i più duri colpi della crisi iniziata nel 2007 ed è investita da una crisi sociale profonda dalla quale stenta a riprendersi.
C’è un altro motivo di opposizione all’apertura domenicale. Può apparire, ai tempi di oggi, inutilmente romantico, ma non lo è. Riguarda la cultura e il modello di società nella quale si sceglie di vivere. Perché si deve lavorare la domenica? Perché a ogni persona e a ogni lavoratore non deve essere consentito di godere di un giorno di riposo per tutti, da dedicare ai figli, alla famiglia, al piacere di stare insieme con loro o socializzare con altri o, più semplicemente, di godere dei propri motivi di svago? E’ inimmaginabile e non sarebbe più coesa una società più umana, meno competitiva ed egoista, più solidale e rispettosa dei diritti di chi lavora, senza essere modellata sulla spasmodica ricerca del danaro e del guadagno che, in definitiva, vanno sempre nelle tasche di pochi e sononegatiaimolti?
E’ lo strappo con questi valori, e non un passatismo nemico di una presunta modernità, che fa rifiutare le false novità che, in quanto tali, non è detto che siano migliori di quanto c’era prima.