Mattarella, lunedì o mai più
Ultima chiamata per il governo
Al voto, al voto. Anzi no, forse. Prima di sciogliere le Camere e rispedire il Paese alle urne, il Quirinale scocca anche l’ultima freccia rimasta nell’arco, un governo di tregua che affronti il nodo della legge elettorale, sterilizzi le clausole di salvaguardia e vari la legge di bilancio 2019, evitando il rischio di un esercizio provvisorio mortifero per la flebile ripresa dell’economia italiana. Il messaggio che tuona dal Colle più alto di Roma non ha bisogno di traduzioni simultanee o interpretazioni: “A distanza di due mesi le posizioni di partenza dei partiti sono rimaste immutate”. Così lunedì il presidente Mattarella farà un altro giro di consultazioni-lampo per “verificare se i partiti abbiano altre prospettive di maggioranza di governo”. All’inizio della prossima settimana l’unico che entrerà nella sala della Vetrata con un’idea precisa da sottoporgli sarà Matteo Salvini, che ribadirà l’intenzione di avere un preincarico per andare in Parlamento a trovare i numeri su un programma che metta al centro la gestione più dura dei flussi migratori, flat tax, sostegno al reddito e abolizione della legge Fornero. L’ambizione è quella di stanare l’anima più trattativista dei Cinquestelle, facendo leva sulla voglia di non tornare alle urne di una parte della truppa pentastellata. Al Quirinale, però, servono certezze e non ipotesi, ragion per cui sono in molti a credere che il tentativo del segretario leghista potrebbe naufragare già in partenza. Fonti interne al centrodestra rivelano che dal Colle la richiesta off the record sarebbe stata molto chiara: se esistono prove tangibili di gruppi parlamentari disposti ad appoggiare un governo a guida della coalizione che ha preso il 37%, o che forniscano almeno la garanzia di non sfiduciarlo in aula, se ne può parlare. In caso contrario, meglio non intavolarla nemmeno la discussione. Oltretutto Salvini potrebbe trovarsi nella condizione di dover ascoltare, più che parlare. Mattarella potrebbe decidere di affidare a una personalità terza, rispetto all’agone della politica, l’incarico di formare un governo su cui chiedere la convergenza dei partiti. Il nome che circola negli ambienti di centrodestra è quello del presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, cui anche il leader del Carroccio avrebbe serie difficoltà a dire di no, se l’alleato Berlusconi dovesse confermare i rumors che lo descrivono senza particolari remore rispetto a una soluzione del genere. Che non vedrebbe contrario nemmeno il Pd. La certificazione avvenuta in direzione nazionale, con tanto di voto unanime, della fine di ogni possibile trattativa con il M5s e di un’apertura alla linea della responsabilità, sembra indirizzare lo scenario proprio nel verso favorevole a Mattarella. Chi rimarrebbe schiacciato è invece Luigi Di Maio. Il capo politico del Movimento 5 Stelle ormai ha smesso i panni istituzionali per indossare nuovamente la ’mimeticà da campagna elettorale. Dalla sua, contro quella che definisce “l’ammucchiata”, il leader pentastellato ha la forza di 338 parlamentari, che al momento hanno ribadito fedeltà assoluta al progetto. Se questa coesione durasse, potrebbe trasformare commissioni e aule parlamentari in Vietnam, peraltro monetizzando in termini di consensi, essendo di fatto l’unica forza di opposizione. Sempreché riesca ad affondare l’eventuale governo di tregua a stretto giro di posta. Altrimenti addio deroga al secondo mandato, addio leadership e addio nuova candidatura a premier: le regole del Movimento non perdonano.
Lattanzi guadagna posizioni Azioni in rialzo per il presidente della Corte costituzionale