Hirsch e Endresen, le voci (esplosive) di Angelica
Il festival si conclude oggi al Manzoni con l’Orchestra del Comunale diretta da Volkov
Con i suoi colori esagerati, un mix tra viola, verde, blu e arancione, l’altra sera Shelley Hirsch, cantante/ performer da sempre dentro quell’avanguardia newyorkese che non vuole scendere a compromessi, è salita sul palco del San Leonardo per un breve e intensissimo concerto per voce e chitarra (con lei il giapponese Uchihashi Kazuhisa), che è andato ad aggiungere uno degli ultimi tasselli al mosaico di un grande festival, quello di Angelica (che quest’anno festeggia il suo quarto di secolo e che si conclude proprio oggi alle 20.30, al Manzoni questa volta, con l’Orchestra del Comunale diretta Ilan Volkov con esecuzioni di brani firmati da Cassandra Miller, Jon Rose, John Oswald e Chris Cutler). L’ironia, il sarcasmo, il mescolare abilmente il parlato al canto, il prendere alla sprovvista l’ascoltatore, i finali quasi sempre a sorpresa che spezzano la salita verso il climax, la presenza scenica da attrice consumata (si può muovere sul palco con la grazia collegiale di una casta diva quanto con la spavalderia di una drag queen), che non si prende mai troppo sul serio...Tutto ciò rende unica la Hirsch (si consiglia fra i suoi numerosi dischi «O’ Little Town of East New York», pubblicato nel ‘95 dalla zorniana Tzadik). Passa da un microfono all’altro, si batte il pugno a ripetizione sul petto quasi a voler espellere, vomitare fuori suoni sempre più lontani dall’educazione del nostro orecchio. Tuba con il microfono. In certi momento è una Meredith Monk, ma molto meno controllata e studiata. È animalesca e qua e là, nel percorso spinoso del suo canto, regala una piccola melodia danzante (e rassicurante), di quelle molto jewish. Eccellente il lavoro del chitarrista e rumorista al suo fianco. Qualche giorno prima, un altro concerto con formazione uguale: voce e chitarra. Gli svedesi Sidsel Endresen e Stian Westerhus. Lei viene dal songwriting (pensiamo al lavoro nel gruppo di Jon Eberson e poi a nome proprio fino a fine anni ‘90) e sembra essersene allontanata lentamente nel corso degli anni. Fino ad arrivare a questo duo (lui è un Frisell prima maniera, ma all’ennesima potenza), in cui la parola cantata lascia spesso lo spazio a un utilizzo della voce come strumento. Con un bellissimo vibrato sullo sfondo della «grana della voce».