Sui luoghi di Salò quarant’anni dopo Pasolini
Castelfranco Emilia Domenica inaugura a Villa Sorra, nei luoghi dove Pasolini girò una parte del suo discusso film, un’installazione ricostruita sulle foto che fece Deborah Beer
Non solo Villa Aldini a Bologna. Pier Paolo Pasolini per il suo Salò o le 120 giornate di Sodoma utilizzò anche altre dimore storiche emiliane. Come Villa Sorra nelle campagna di Castelfranco Emilia, dove venne realizzata, per esempio, la scena in cui 4 sadici nazifascisti scelgono dei ragazzini che porteranno poi a Villa Aldini. Nella primavera del 1975 Pasolini si trovava proprio a Villa Sorra, per girare alcune scene di quello che lo scrittore e regista bolognese non poteva ancora immaginare trattarsi del suo ultimo film.
La villa era stata blindata e le riprese, che coinvolgevano giovani comparse reclutate in gran parte tra la gente di Castelfranco, erano avvolte nel più completo mistero, visto che nulla o quasi trapelava al riguardo. Pasolini sarebbe morto pochi mesi dopo, il 2 novembre dello stesso anno e oggi, a quarant’anni dalla sua scomparsa e dall’uscita del film, si può in parte provare a ricostruire quelle settimane grazie alle sagome a grandezza naturale realizzate a partire dalle fotografie di Deborah Beer, che sono state collocate nella villa. Le immagini della Beer, fotografa di scena inglese che era l’unica persona esterna ammessa sul set e che registrò ogni istante di quei giorni, sono alla base dell’installazione composta di dieci sagome, piazzate nel punto esatto dove erano state scattate le foto. Con il regista seduto su una panchina a riflettere, o intento a dare indicazioni davanti alla facciata della villa, gruppi di ragazzi a cui Pasolini spiega cosa devono fare e maturi attori in posa nella Limonaia. Un progetto espositivo che si inaugura a Villa Sorra domani alle 18, in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna, il Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini e Cinemazero di Pordenone, che ha messo a disposizione le immagini del fondo BachmannBeer. Il progetto è a cura di Fausto Ferri, con il supporto organizzativo di Giuseppe Modena: «Sono le impronte riflesse dello sguardo di Pasolini — spiegano i curatori — le sagome fotografiche a grandezza naturale che occupano gli stessi luoghi che furono scena e teatro delle riprese, che ci permettono di rivivere ciò che accadde in quei giorni, gli ultimi che videro il regista dietro la macchina da presa. Sono memorie di un set, frammenti di un racconto che racchiudono in sé la magia del cinema ma allo stesso tempo ci appaiono nella loro grande umanità».
La villa, edificata a fine ‘600 dalla famiglia nobile dei Sorra e oggi di proprietà dei Comuni di Castelfranco, Modena, Nonantola e San Cesario, è considerata tra le più importanti del territorio modenese, anche per il suo ottocentesco giardino romantico. Pasolini la conosceva bene e per questo la scelse per quello che sarebbe diventato il suo film-testamento. Un durissimo, spietato atto d’accusa contro il potere costituito che il regista non poté difendere in vita, visto che fu ucciso mentre stava realizzando il montaggio. E che si potrà rivedere, nella versione restaurata dal laboratorio bolognese L’Immagine Ritrovata, tra pochi giorni alla Mostra del Cinema di Venezia. Mentre a Bologna sarà proiettato il 2 novembre e darà il la alle tante iniziative messe in pista per ricordare il quarantennale della scomparsa di Pasolini. Il regista decise di sviluppare un progetto che stava a cuore a Sergio Citti. Quest’ultimo pensava, infatti, di produrre una sceneggiatura dalle Centoventi giornate di Sodoma di De Sade. Pasolini fece propria l’idea, che vide poi Sergio Citti e
La villa era stata blindata e le riprese, erano avvolte nel più completo mistero
un giovane Pupi Avati come collaboratori alla sceneggiatura, sviluppando il tema del «piacere» della violenza, delle sevizie e della perversione sessuale ma tramutando l’originaria ambientazione settecentesca nella repubblica di Salò del 1944. «Mi sono accorto — disse allora Pasolini — che Sade, scrivendo, pensava sicuramente a Dante. Così ho cominciato a ristrutturare il libro in tre bolge dantesche. Ma l’idea di sacra rappresentazione peccava di estetismo, occorreva riempirla di immagini e contenuti. Quattro nazifascisti fanno dei rastrellamenti; il castello di Sade, dove portano i prigionieri, è un piccolo campione di lager. Mi interessava vedere come agisce il potere dissociandosi dall’umanità e trasformandola in oggetto».