Corriere di Bologna

Storia di Mosè, il figlio del Mediterran­eo

La famiglia fuggita dalla Costa d’Avorio, il parto sul barcone. «Qui lo faremo battezzare»

- Di Maria Centuori

Quando Cristine ha partorito suo figlio era su un barcone fatiscente assieme al marito Alexis, in fuga dalla Costa d’Avorio. «Ci hanno detto che il viaggio sarebbe durato due ore. Invece trascorrev­ano i giorni e i dolori al basso ventre aumentavan­o».

Il piccolo ora ha due mesi e mezzo; e vive con la madre e il padre in una struttura di seconda accoglienz­a della cooperativ­a MondoDonna, a San Pietro in Casale. Si chiama Mosè e presto sarà battezzato.

«Mosè!». Hanno urlato il suo nome nel mezzo della notte, non appena ha pianto per la prima volta, venuto al mondo in mezzo al mare durante la traversata della salvezza dalla Libia all’Italia. Quando Cristine ha partorito il suo bambino era su un barcone fatiscente assieme al marito Alexis, in fuga dalla Costa d’Avorio. Ora tutti e tre sono ospitati in una struttura di seconda accoglienz­a della cooperativ­a MondoDonna, in una piccola frazione di San Pietro in Casale. Lì, nella piccola parrocchia, presto battezzera­nno Mosè.

Erano in un centinaio sulla barca quando il piccolo, che oggi ha due mesi e mezzo, è nato. Erano in viaggio da due giorni e ne sarebbero occorsi altrettant­i prima di toccare la terraferma. Prima che i soccorsi italiani li salvassero. «Quando siamo partiti dalla Libia — ricorda Cristine, con in braccio il piccolo — ci hanno detto che il viaggio sarebbe durato due ore. Invece trascorrev­ano i giorni e le notti e la costa sembrava sempre più lontana. I dolori al basso ventre aumentavan­o con il passare delle ore, le contrazion­i erano sempre più forti. Avevo paura di non farcela, piangevo per il dolore. Ho partorito sul barcone grazie a una signora che mi ha aiutato». Si emozionano ancora mentre ricordano la notte del 18 luglio: «Non sappiamo come si chiami quella donna e che fine abbia fatto. Quando sono arrivati i soccorsi italiani ci siamo persi di vista. Mosè è vivo grazie a lei, non ha avuto paura e mi ha tagliato il cordone ombelicale con i denti». «Mentre un’altra donna si è spogliata e nei suoi vestiti ha avvolto il bimbo — racconta con la voce tremolante Alexis, il papà — A quel punto sul barcone tutti hanno urlato il nome Moise, perché ci avrebbe aiutato ad attraversa­re il mare. Ci eravamo persi. Continuavo a piangere: non avevo mai visto una donna partorire, avevo tra le braccia mio figlio ma avevo paura di perdere per sempre mia moglie». Il parto è stato un momento drammatico: «Svenivo continuame­nte, ricordo solo il dolore». E quando a Messina le forze dell’ordine hanno chiesto quale fosse il nome del bimbo, loro senza esitare hanno detto: «Mosè».

Tra qualche domenica il piccolo verrà battezzato nella piccola chiesa di Maccaretol­o, una frazione bolognese di quattrocen­to anime: tra loro c’è una signora che sarà la madrina. Dimessi dall’ospedale di Messina, un autobus li ha portati all’hub di via Mattei. Dopo poche ore erano già in una struttura ad hoc della cooperativ­a MondoDonna. «Le operatrici sono diventate le zie di Mosè — sorride Alexis —. La comunità ci ha accolto. Quando andiamo a messa, parliamo con le altre persone e per qualche ora dimentichi­amo la nostra storia».

Sono fuggiti dal loro villaggio a marzo. Alexis e Cristine sono cristiani ma lui era stato scelto «come capo villaggio». Per non subire una serie di iniziazion­i, contrarie al loro credo, si sono opposti e sono stati condannati a morte. «Avrebbero anche infibulato mia moglie, non ho voluto e siamo dovuti fuggire. Mia mamma ci ha aiutato a metterci in salvo. Siamo arrivati in Algeria e da lì siamo finiti nell’inferno della Libia per tre mesi». Cristine ha trascorso gran parte della sua gravidanza in una stanza, assieme a decine di uomini e di donne, senza acqua per potersi lavare e con poco cibo: «Siamo stati fortunati — racconta abbraccian­do il suo bimbo — . Un giorno sono arrivati gli uomini armati ci hanno lanciato del pane addosso, ci siamo gettati per prenderlo, non mangiavamo da giorni ma hanno iniziato a sparare, uccidendo diverse donne e uomini accanto a me e ad Alexis». Quando potranno, Alexis e Cristine vorrebbero portare in Italia anche la loro primogenit­a, rimasta con i nonni in Costa D’Avorio: «Non sarebbe sopravviss­uta in Libia». Hanno acquistato un cellulare, il prossimo mese comprerann­o una scheda telefonica: «Avviseremo i nonni che siamo vivi e che il piccolo si chiama Mosè».

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