TURCI CRITICO «PROGETTO SBALLATO FIN DALL’INIZIO»
Le telefonate tra i dem e il tesoriere di via Rivani
«Un progetto sballato fin dall’inizio. Ma è paradossale pensare a pressioni stile mafia», dice l’ex presidente della Regione e di Legacoop, Lanfranco Turci. «È il classico rapporto fra imprese di costruzioni, non solo cooperative, e le amministrazioni locali — continua —. Poi è vero che oggi i manager hanno troppo potere e ormai conta solo il profitto».
L’inchiesta sulla Colata di Idice non turba solo i sonni dei dirigenti di Legacoop. Pure dentro al Pd le indagini della Procura, dopo le denunce della sindaca renziana di San Lazzaro Isabella Conti, provocano tensione. Più che il ruolo dell’ex sindaco Aldo Bacchiocchi e di quello di Castenaso Stefano Sermenghi (entrambi sotto inchiesta), è quello del tesoriere di via Rivani Carlo Castelli (anch’egli destinatario del fine indagine) a turbare i Dem.
Il 16 gennaio del 2015, quando la vicenda di Idice è su tutti i giornali, Castelli viene sentito in Procura. Racconta due episodi: le preoccupazioni che gli rivolge Claudio Merighi, ai tempi dirigente di Coop Costruzioni, già vicesindaco del Pd della giunta Delbono, e quelle di Mauro Roda, presidente della Fondazione Duemila, la cassaforte del partito (nessuno dei due convolto nell’inchiesta). Castelli ha modo di parlarne con la Conti in due occasioni nella sede del Pd. La prima il 28 luglio 2014, quando le chiede di «valutare tutto il possibile per non danneggiare le coop». La seconda il 23 novembre (due giorni dopo l’avvio del procedimento di decadenza del Poc), in una riunione sul voto delle Regionali, quando Castelli le riporta il «giudizio negativo» sul suo operato da parte di Roda.
«Non ho parlato della vicenda di Idice con altre persone, né sono stato contattato da alcuno», racconterà il tesoriere dem in Procura a metà gennaio, senza sapere di essere intercettato. E da alcune telefonate con Fabio Querci, responsabile Feste Pd (che non è indagato), gli investigatori si convinceranno che in realtà il suo ruolo nella vicenda non è così neutrale. Castelli in quei giorni incontra Bacchiocchi e Roda, mentre a Querci racconta un elemento sui terreni che colpisce gli investigatori. Castelli spiega che «quello che mi ha descritto le carte della convenzione, e da quello che mi ha letto, perché c’è una persona che le ha, nel cda di una coop, la Conti è matta». «La cosa che non sapevo — annotano gli inquirenti — sarebbe che il Comune di San Lazzaro ha già ricevuto dei terreni che ha provveduto a vendere, e ha già fatto cassa su quel Poc». Per gli investigatori (che individuano la fonte di Castelli in uno dei costruttori coinvolti nella Colata, Stefano Farneti, ora presidente di Astrale), si tratta di una conversazione importante, perché evidenzia la sua conoscenza dei fatti «ben più ampia» di quella raccontata ai pm, e quindi anche «il suo interessamento appare ben diverso dalle motivazioni dichiarate». Quel passaggio, si legge in un’informativa all’interno dell’inchiesta, per i costruttori potrebbe rappresentare una falla in vista di un ricorso che poi ci sarà (anche se il Comune si è sempre sentito al sicuro da eventuali penali).
Con Querci le telefonate sono diverse. In un’altra, pochi minuti dopo l’audizione, chiede a Castelli cosa gli hanno chiesto i pm e il tesoriere si concentra sulle domande («anche con una certa insistenza», dice) sui i rapporti tra Pd e Fondazione Duemila. L’altro se ne preoccupa, tanto che gli inquirenti scrivono: «Querci commenta che non vorrebbe che adesso si possa ipotizzare un finanziamento illecito, ma Castelli dice che è tutto regolare». Querci non sarà il solo a crucciarsi di un elemento comunque mai toccato dall’inchiesta. Castelli ne parla con il capogruppo a Palazzo d’Accursio Claudio Mazzanti (fuori dai radar dell’indagine), e pure lui è contrariato all’idea che gli inquirenti possano «ravanare» nelle carte dell’immobiliare vicina al partito.
A Mazzanti non andava che gli inquirenti «ravanassero» nelle carte dell’immobiliare