COSCIENZA INQUIETA
Era tutt’altro che facile da raccogliere l’eredità lasciata dal cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna e intellettuale arguto di notevole levatura, come dimostrano le «Lettere a una carmelitana scalza» edite nello scorso aprile: eppure Carlo Caffarra entrò subito nel ruolo senza complessi di sudditanza. Era il tempo di un pontificato forte, quello di Giovanni Paolo II, e del suo magistero esigente, volto a orientare un popolo di Dio spesso smarrito dinanzi ai cambiamenti epocali e ai miracoli di una tecnica che stava imprimendo all’avventura umana velocità sin lì sconosciute. E sia Giacomo Biffi, sia Carlo Caffarra sono stati interpreti importanti di quella domanda di sicurezza che si levava dai fedeli, di quella necessità di dare un orientamento morale ai comportamenti quotidiani e un significato al succedersi dei giorni. La stessa formazione di Carlo Caffarra, del resto, inclinava in tale direzione: il suo essere professore di teologia morale fondamentale, unitamente a un istinto che individuava subito i punti nodali attraverso i quali passava al crisi di una civiltà, lo ha portato a focalizzare la propria sensibilità e competenza sui temi della famiglia e sulle tematiche concernenti la procreazione umana, inverando un insegnamento che ha lasciato il segno.
L’arcivescovo Caffarra è stato tuttavia anche un pastore attento e sensibile: uomo che sapeva navigare con sagacia pure nelle difficoltà di gestione di una diocesi storicamente importante, come quella bolognese. Uomo dal carattere apparentemente burbero, credo fosse invece persona generosa: o almeno questa è l’impressione che ne ho ricavato nelle nostre occasioni d’incontro. Penso che la sua generosità fosse rivolta soprattutto alla Chiesa: anche laddove — e qui la storia confina con la cronaca — la sua presa di posizione in merito alle dichiarazioni magisteriali di Papa Francesco su matrimonio e famiglia, contenuti nell’Esortazione apostolica «Amoris laetitia», ha posto al Pontefice in maniera aperta e pubblica la necessità di un chiarimento dottrinale. Era il punto di vista — condiviso da altri cardinali — di un uomo che chiedeva al supremo capo della Chiesa di rendersi interprete della verità della quale proprio la sua figura apicale è destinata a essere garante: essendo l’unità della fede il bene più grande che la cattedra di Pietro è chiamata a tutelare.