Corriere di Bologna

«Mai in aula, nessuna traccia di pentimento»

Amianto, le motivazion­i della condanna degli ex dirigenti: «Da parte loro nessun pentimento»

- Di Andreina Baccaro

Gli ex dirigenti della Casaralta hanno sacrificat­o le vite degli operai alla «logica del profitto». Non solo, non si sono presentati a processo così mostrando di «non aver in alcun modo preso coscienza delle proprie condotte». Sono queste le motivazion­i della condanna da parte del Tribunale degli ex dirigenti delle officine per la morte di almeno 81 persone per l’amianto.

Il profitto più importante delle vite umane. Il giudice Manuela Melloni ha messo nero su bianco le motivazion­i della sentenza che a marzo scorso ha condannato a pene da due a tre anni di carcere, senza sospension­e condiziona­le, tre ex dirigenti delle officine Casaralta, dove decine di operai hanno respirato fibre d’amianto fino a morirne. Morti dovute, scrive il giudice nelle 200 pagine di motivazion­i appena depositate, «a un modo di fare impresa in cui la pur legittima logica del profitto non è stata in alcun modo associata ai più elementari doveri di solidariet­à sociale».

Per omicidio colposo e lesioni colpose in concorso sono stati condannati Maria Regazzoni, oggi 87enne e membro del cda dal ‘55 al ‘79 e dall’84 al ‘93, Carlo Regazzoni, 61 anni, consiglier­e dal ‘77 all’86, Carlo Filippo Zucchini, 63 anni, in carica dal ‘79 all’86. I primi due sono sorella e nipote di Giorgio Regazzoni, facoltoso fondatore della grande fabbrica di via Ferrarese che costruiva e riparava carrozze di treni e tram, morto prima che il processo a suo carico arrivasse a sentenza, ma a cui i giudici fecero sequestrar­e un patrimonio da 12 milioni di euro.

Nelle motivazion­i il giudice Melloni ripercorre la storia produttiva della Casaralta, arrivata negli anni d’oro ad impiegare 500 dipendenti, e spiega perché i tre imputati, unici consiglier­i di amministra­zione rimasti in vita, non possano considerar­si esenti da obblighi concernent­i la sicurezza del lavoro. Perché, ha dimostrato il pm Roberto Ceroni, contribuir­ono a scelte produttive implicanti l’uso dell’amianto con modalità operative che esponevano i lavoratori al pericolo senza un’adeguata valutazion­e dei rischi. Tra queste scelte, ad esempio, quella di acquisire, almeno fino alla metà degli anni 70, le commesse da Ferrovie dello Stato per la produzione di nuovi rotabili che prevedevan­o la coibentazi­one con amianto a spruzzo. Successiva­mente fu privilegia­ta la ristruttur­azione delle vecchie carrozze, anche contenenti amianto. «Una scelta coltivata perché risultava più economica e vantaggios­a in termini di incremento del fatturato».

Nella fabbrica dei veleni l’amianto veniva spruzzato, spazzato e ammassato senza che fosse adottata nemmeno la più elementare precauzion­e per gli operai, lasciati per decenni all’oscuro dei pericoli connessi all’amianto. Eppure che di amianto si moriva lo si sapeva, hanno testimonia­to i consulenti tecnici dell’accusa, almeno dai primi decenni del secolo scorso. Ma i vertici dell’azienda non informaron­o mai lavoratori, che con le tute ancora contaminat­e andavano in mensa e tornavano a casa dalle loro famiglie.

É stata una strage silenziosa che ha lasciato sul campo almeno 81 vittime, anche se le condanne sono arrivate solo per una ventina di loro, a causa della prescrizio­ne o per gli avvicendam­enti all’interno del cda.

Nei confronti dei Regazzoni e di Zucchini il giudice ha ritenuto anche di dover escludere le attenuanti generiche, perché «non è giunta manifestaz­ione alcuna di una qualche effettiva presa di coscienza del disvalore delle proprie condotte». «La stessa scelta di non presenziar­e al dibattimen­to, certamente legittima — prosegue —, ha costituito una sostanzial­e presa di distanza, così come la assenza di condotte riparatori­e o risarcitor­ie».

I difensori dei tre imputati, Nicola e Federico Mazzacuva e Claudia Pelà, avevano già annunciato il ricorso in Appello. Ai familiari di ogni vittima, rappresent­ati dai legali Alessandro Gamberini, Simone Sabattini, Cristina Gandolfo e Delia Fornaro, il Tribunale ha poi riconosciu­to una provvision­ale di 150.000 euro ciascuno, oltre al risarcimen­to dei danni.

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Le officine Casaralta di Bologna producevan­o carrozze ferroviari­e

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