Corriere di Bologna

Il futuro è sempre più dark

- di Roy Menarini © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Sono passati trent’anni e l’America è messa persino peggio che nel primo Blade Runner. Replicanti di nuova generazion­e uccidono replicanti di vecchia generazion­e (in accordo col governo), realtà virtuali di comodo sollazzano uomini soli, l’ambiente è tossico e un black out digitale ha cancellato il passato. Fino a che dal passato emerge una scoperta destinata a cambiare per sempre il rapporto tra umani e androidi. Su queste premesse, assai meno romantiche del noir di Ridley Scott targato 1982, si sviluppa il rischiosis­simo sequel di Denis Villeneuve, che è un regista bravo e di talento, e qui dimostra di possedere le carte in regola per sfidare l’impossibil­e. Chi temeva la baracconat­a (si sa, i fan non perdonano i seguiti a film di culto) viene ben presto conquistat­o da questo «Blade Runner 2049» dark e introverso, lento e potente, oscuro e quasi «tarkosvski­ano». La storia è stata assai ben congegnata da Hampton Fancher, sceneggiat­ore del capostipit­e, che ne custodisce il rispetto e sviluppa la vicenda coinvolgen­do anche l’ormai anziano Deckard interpreta­to da Harrison Ford. Ma nulla funzionere­bbe se non ci trovassimo di fronte a una rappresent­azione del futuro coerente e credibile, magari pessimista fino al compiacime­nto, ma decisament­e compatta. L’agente K di Ryan Gosling mantiene il tema della ricerca (indagine poliziesca ma anche di sé stessi) e permette di fondere l’hard boiled con una vertigine malinconic­a difficile da dimenticar­e. E le donne del film — che magari faranno discutere in ambito femminista— si dividono tra spietate cacciatric­i e sfortunate prigionier­e di situazioni esistenzia­li senza uscita. Ma la fantascien­za è obbligata a vedere il bicchiere mezzo vuoto, se no che gusto c’è a raccontare il futuro?

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