MANFREDINI NEI PANNI DELLA FOLLIA
Oggi si chiude Vie Festival con «Luciano», lo spettacolo dell’attore e regista che si è ispirato a una persona realmente conosciuta: «Il mio personaggio è il paziente di una comunità pschiatrica in cui ho lavorato per vent’anni. In scena è alla ricerca di
Ci sono pochi attori capaci come Danio Manfredini di arrivare a un nocciolo di scabra verità attraverso le finzioni del teatro. I suoi personaggi, marginali, fragili, pieni di voglia di amare e precipitati nel dolore, si scolpiscono intimamente in chi guarda. Il suo nuovo lavoro, Luciano arriva stasera alle 21.30 sul palcoscenico dell’Arena del Sole, in una intensa giornata del festival Vie, che domani chiuderà i battenti (si segnalano a Modena Teatro Sotterranneo, a Carpi la Valdoca, alle Moline di Bologna ancora l’irresistibile teatro umoristico-antropologico degli Omini). In scena con Manfredini, Vincenzo Del Prete, Ivano Bruner, Giuseppe Semeraro, Cristian Conti.
Manfredini, come mai una sola replica all’Arena?
«Il festival ha subito tagli. Noi eravamo rimasti fuori. Poi è intervenuta la sponsorizzazione di una banca bolognese, e siamo rientrati». Chi è Luciano? «È una persona reale alla quale mi sono ispirato, paziente di una comunità psichiatrica in cui ho lavorato per 20 anni. Nello spettacolo è l’asse che cuce vari contesti che attraversa. È colto in un lungo corridoio e da lì parte, con l’immaginazione, per un viaggio in quadri che evocano i cessi di una stazione, un parco, un luogo di incontri omosessuali, una discoteca, un cinema a luci rosse, per tornare al contesto psichiatrico dove vive, che non è però un luogo realistico, ma solo quello cui torna più spesso».
Cosa rappresenta questo viaggio dell’immaginazione?
«È un lavoro sull’allucinazione, la ricerca di un rifugio rispetto a una realtà che non si riesce a vivere. Lo sguardo particolare di Luciano dà una nuova luce, in un modo meno giudicante, più accogliente, più poetico, a contesti che io stesso frequento».
Luciano appariva già in «Tre studi per una crocifissione», degli inizi anni 90. Di recente lei ha ripreso «Cinema Cielo» del 2003. Come mai questo guardarsi indietro?
«Ogni tanto riemergono rigurgiti dalla lontananza. Del vero Luciano non so più nulla. Cinema Cielo mi hanno chiesto di rifarlo. Ogni tanto tiriamo fuori vecchi pezzi, e scopriamo che hanno ancora una loro forza».
Lei costruisce gli spettacoli per studi successivi, in modo lento. E continua a lavorarci anche dopo il debutto. Come mai?
«Ogni volta che entro in un lavoro nuovo mi chiedo cosa sto facendo e perché. Lo capisco poco alla volta, in scena. In realtà lo spettacolo è una creatura che inizi ad abitare e che cresce in modo lento, a mano a mano che vi fai esperienza dentro».
Molti amano il suo teatro perché fa male, è lancinante, mostra la verità cruda della realtà che ci circonda…
«Forse perché tendo sempre a prendere materiale dalla vita. Scrivo, disegno, disegno molto, raccolgo frasi ascoltate. Tutto il materiale viene dalla vita, e si sente. Poi quei materiali diventano personaggi, situazioni, dialoghi. Luciano nello spettacolo è l’unico senza maschera: è lui che immagina gli altri personaggi nel suo delirio, nel suo desiderio».
Cosa vuol dire per lei ripercorrere situazioni e figure di precedenti spettacoli?
«Vuol dire guardarli con occhi diversi, più disincantati. In un modo più crudo, meno idealizzato. Oggi disegno di più uno stato di solitudine. Luciano è solo e si rispecchia in altri solitari, in altri marginali. Nel corso degli ultimi anni trovo che si sia accentuata una lente d’ingrandimento individuale sul mondo. Che ha portato a un deficit di comunicazione. Nei contesti omosessuali per esempio, ma anche altrove, è avanzato il narcisismo e il consumo solitario. In psichiatria prima c’erano i manicomi, luoghi violenti, poi le comunità. Ora i pazienti sono dispersi e isolati. Ne vedi uno che gira in piazza Loreto a Milano, libero, ma come un poveretto, isolato. Oggi c’è tanta più solitudine».