Le storie raccontate di Baliani
Marco Baliani parla del suo libro «Ogni volta che si racconta una storia», che presenterà oggi all’Ambasciatori: «È chi ascolta a dare risonanza a ciò che le parole suggeriscono»
Ti sembrava di vederla la scena, l’ingiustizia subita da Michael Kohlhass, a cui un nobile prepotente aveva sottratto i due bellissimi cavalli morelli. Soffrivi con lui nello scoprirli, all’improvviso, ridotti in una porcilaia... L’attore capace di trasportarti con la sola parola e con qualche gesto essenziale in quella situazione era Marco Baliani, che con Kohlhass del 1989, da Kleist, ha inaugurato la stagione del teatro di narrazione.
Poi ha scritto e interpretato altri lavori famosi, come Antigone delle città, azioni itineranti per Bologna per ricordare la strage della stazione, 1991, Corpo di Stato, sul caso Moro, 1998, Pinocchio nero, creato con i bambini di strada di Nairobi, 2005, fino a spettacoli recenti ispirati all’Orlando furioso e al Decameron con Stefano Accorsi, a Human con Lella Costa. Autore di romanzi e saggi, torna ora in libreria con Ogni volta che si racconta una storia, pubblicato da Laterza e dedicato proprio all’arte del narrare: lo presenta oggi alle 18 alla libreria Coop Ambasciatori.
Baliani, questo volume è un manuale per imparare a raccontare o è un diario delle sue esperienze?
«Io lo chiamerei un libro di incontri a partire da un focus sulla narrazione orale. Sono esperienze che nascono quando qualcuno racconta una storia a viva voce e qualcun altro la ascolta. Comprende anche riflessioni teatrali e descrivo alcuni esercizi che propongo nei laboratori; ma soprattutto narro momenti di scambio, come quando mi sono trovato al rione Sanità di Napoli in una situazione che divideva una strada, una madre portata via dai suoi figli».
Ogni capitolo si apre con la citazione di uno scrittore: non è una contraddizione in un testo sull’oralità?
«Si tratta di autori che amo, di scritture con una forte carnalità… Ma nel libro ci sono anche rimandi a miei video di narrazione, che danno sostanza alle parole scritte».
Che cosa accade quando si narra una storia?
«Si crea una relazione. Al di là del contenuto narrato, c’è uno scambio tra chi racconta e chi ascolta. Questi incamera parole effimere, che scorrono, e dà a esse consistenza di immagini personali. Il narratore non è sicuro di comunicare quello che vuole: è l’ascoltatore a collegare a proprio modo, a dare risonanza e profondità a ciò che le parole e le storie suggeriscono».
Narrare, lei spiega nel libro, deve generare stupore.
«Lo stupore è un elemento essenziale della mia poetica. Ne parlo in Tracce, ispirato dal filosofo del “principio speranza”, Ernst Bloch: in quello spettacolo attraverso altri temi a me cari, l’incanto, l’infanzia, il racconto appunto. Lo stupore è una condizione inestimabile e inderogabile. Per suscitarlo è necessario un allenamento a cogliere in ciò che ci circonda, nell’ordinario, lo straordinario».
Come si può sviluppare un’attenzione capace di reinventare la realtà?
«Nel libro suggerisco vari esercizi. Uno è quello della “luccicanza”: la sera, prima di addormentarsi, riandare alle cose successe nella giornata e catturare piccoli eventi epifanici. Te li racconti, di nuovo, e così ti addormenti con un’attenzione al mondo. È come ricordare i sogni per narrali a uno psicanalista».
Qual è la forza della voce viva?
«È un potere magico, buono e cattivo. Si possono creare mondi immaginativi e disastri, come le voci che convincono i giovani immigrati di terza generazione, cresciuti a noccioline e coca cola, a imbracciare il Corano per farsi esplodere». E il fascino della voce? «Non è vero che scripta manent. Pensate a quale doveva essere la suggestione della parola di Socrate, di Gesù, di san Francesco. Noi quando pensiamo a loro abbiamo in mente cose scritte da altri. Ma la loro voce doveva contenere un’emozione particolare, contagiosa».
Nel suo racconto ci porta anche in momenti drammatici, per esempio nella perdita di facoltà di un reparto geriatrico, quando assiste sua madre…
«E ci sono altri momenti dolorosi, che servono a rielaborare il lutto. È un altro dei poteri del racconto».
La narrazione può salvare dallo spasmodico consumo di immagini della nostra società?
«Non credo ci sia bisogno di salvarsi. Siamo dentro questa società. Bisognerebbe piuttosto sviluppare, sin dall’infanzia, un’educazione all’ascolto e all’immaginazione, per evitare che l’onnipotenza dell’immagine divori tutto. Io suggerisco piccoli antidoti, in una situazione in cui non esistono più società omogenee, coese, come quelle contadine dove prosperava il racconto orale, ma qualche volta piccole comunità temporanee».
È scomparso Walter Benjamin, un ispiratore dei suoi precedenti scritti sulla narrazione.
«Questo vuole essere un libro per tutti, popolare, meno intellettuale. Che chiunque possa leggere, col piacere della scoperta».
La voce ha un potere magico, buono e cattivo Si possono creare mondi immaginati vi e disastri, come le voci che convincono i giovani immigrati di terza generazione cresciuti a noccioline e coca cola, a imbracciare il Corano per farsi esplodere