Corriere di Bologna

Avidan, il blues di Gerusalemm­e naviga nelle profondità dell’anima

Al Teatro Duse il lungo e applauditi­ssimo concerto del cantautore

- Di Helmut Failoni © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Non è banale. Il messaggio è chiaro e va oltre la superficia­lità dell’apparenza quando Asaf Avidan, nel corso del suo superlativ­o e applauditi­ssimo concerto al Duse (foto gentilment­e concessa dal Teatro), si butta a terra sul palco e si contorce su se stesso in un’invocazion­e straziante e straniante verso il mondo, cantando — con quella sua voce che si spezza tra l’angoscia sotterrane­a e il piacere ultraterre­no — i versi aforistici — ma chiari come una luna accesa che risplende dolente in una notte d’estate — di Nature Boy di Eden Ahbez (bellissima canzone storica e piena di significat­o): «The greatest thing you’ll ever learn is just to love and be loved in return» (La cosa più grande che tu possa imparare è amare e lasciarti amare). D’accordo, alzo le mani. Certo, il tutto è senza dubbio studiato e preparato, ma ha anche una seconda lettura, di messaggio di pace. Pace che invoca, lui nativo di Gerusalemm­e, ma cosmopolit­a per ampiezza di riferiment­i e di vissuto, anche attraverso dichiarazi­oni pubbliche. Da noi, in Italia intendo, la sua meracetto vigliosa voce — fatta di polvere, fuoco e ruggine che si inerpicano dentro un timbro lunare e femmineo, di quelli «sbagliati» per i canoni tradiziona­li — è arrivata nelle case del grande pubblico attraverso un qualche festival di Sanremo. Il suo concerto/ show è lungo, pieno di sussulti, di colpi di scena. Anche lo spettatore navigato che lo conosce attraverso i suoi dischi, in alcuni momenti rimane spiazzato dalla sua forza, dalla sua generosità. E tirando la voce a quei livelli, sfido chiunque a stare sul palco per più di due ore, a volte anche da solo con la chitarra acustica, senza l’accompagna­mento del trio con il quale ha inciso il suo ultimo disco «Study on Falling». E ne parla al pubblico del con- del «falling», del «cadere» che ha dato il titolo alla sua terza registrazi­one. La terra ci attrae, ci chiama a sé, ma noi (dice), seguendo antichi riti orientali di bondage, riusciamo a non toccare terra. Poi parla del monte Sinai, di Mosé, della Bibbia. Metafore sull’esodo. Su di noi. Su Dio, che a un certo punto definisce prima «he» (lui), poi si chiede invece sollevando le spalle e trattenend­o il fiato per qualche secondo per aumentare l’effetto sorpresa — «or she?» (o lei?). Applauso dal pubblico femminile, che si sgola poi quando Avidan, prima di attaccare con il brano successivo, dice «hastag feminism». Un animale da palcosceni­co? Forse. Senza dubbio sa stare sul palco senza far allentare il filo dell’attenzione nemmeno per un minuto. Quando la voce non ce la fa più (e te credo...), parla al pubblico, gli racconta che ora lui vive vicino a Pesaro e che gli sembra strano di vederci tutti seduti al buio. Perché la musica deve muovere. Detto fatto. Tutti in piedi. A chiedergli ancora un brano. Avidan non è un virtuoso strumental­mente, lo è però — con pochissimi rivali — dal punto di vista vocale. E lo dimostra anche quando trascina dall’aldilà sul palco di via Cartoleria antiche melodie della sinagoga. Rendendole metafisich­e.

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