La «Vittoria sul sole» e la fine di un sogno
«Un guerriero, un mercante e un aratore. A voi hanno pensato il fantasticoso il canzonaio e l’insognatore». Così recita il poeta Velimir Chlébnikov nel Prologo di Vittoria sul sole, sublime spettacolo futurista scaturito dall’ardore visionario diAleksej Kruenych, poeta, Michail Matjušin, musicista e Kazimir Severinovi Malevich, pittore. Realizzato ben prima della rivoluzione di Ottobre lo spettacolo va in scena al Teatro Luna Park di Pietroburgo nel dicembre del 1913, due sole repliche, inframezzate dalla messa in scena della tragedia in versi Vladimir Majakovskij di Majakovskij, e mai più replicato. All’Europa delle avanguardie giunge solo il Quadrato nero del fondale di Malevich, che segna la nascita del suprematismo. Vittoria sul sole è un po’ il cuore della mostra che giunge a Bologna a chiudere un anno di celebrazioni della Rivoluzione del 1917. Non tanto per la qualità dell’opera, che è una ricostruzione filmata del 2013 del Teatro Stas Namin di Mosca (ripreso a Parigi, dalla Fondazione Vuitton, in occasione della personale dedicata a Matjušin, e andato in scena quest’anno in prima nazionale al Teatro Alighieri per Ravenna Festival), quanto per la sua inossidabile forza simbolica. Pur concepito in un angolo remoto della Finlandia, l’opera condensa profeticamente il clima che pochi anni dopo avrebbe portato allo scoppio di una irreversibile Revolutija. Protagonisti sono i Futuriani, che cercano di distruggere il passato e il vecchio mondo attraverso l’uccisione del Sole, simbolo della realtà oggettiva; e sempre i Futuriani, sopravvissuti alla distruzione, sono accolti in un mondo nuovo, un universo capovolto, fissato nell’immagine di fondo di un quadrato metà bianco e metà nero. Con la mostra i curatori intendono certo colmare una lacuna nella percezione occidentale, mettendo gli artisti delle avanguardie accanto a quelli dei Realismi delle tante correnti degli anni sublimi in cui la possibilità di creare un’arte proletaria sembrava senza barriere. Non siamo abituati a questa convivenza ma è proprio la diversità il punto che i curatori vogliono far emergere, attraverso una centrata pluralità di sguardi. Ma se è vero com’è vero che questi artisti respirarono tutti lo stesso clima è vero anche che ciò che si affermò nel tempo fu il fallimento di ogni ideale e un ritorno all’ordine pagato a caro prezzo. Forse non è neppure necessario che le didascalie riportino i riferimenti storici e i morti, la forza delle immagini traduce da sé anche ciò che non si può vedere. «Il contemplista è trasmutiere» dice ancora il cantore del prologo e «l’ultimatum vi verrà incontro<, così l’allegra folla del Manifesto del 17 Ottobre 1905 di Repin, che apre la mostra, dove un gruppo di proletari celebra la concessione di una Duma, portando sulle spalle uno scarcerato che scuote le catene, è come risucchiata negli occhi vuoti e senza vita dell’algido ritratto di Stalin, che chiude il percorso, dove anche il realista Filonov non può non registrare la fine di un sogno.
Suggestioni L’allegra folla del «Manifesto» di Repin sembra risucchiata dal ritratto di Stalin di Filonov