Corriere di Bologna

UNA MOSTRA PERMANENTE

- di Luca Bottura

Alla visita guidata eravamo 40 paganti e altrettant­i portoghesi.

Mia madre, che è altra mezzo Pupo e poco più, spesso non vedeva alcunché.

Basterebbe un badge per chi ha prenotato.

Egli infiltrati magari si vergognere­bbero un po’. Rinculereb­bero un filo. Ecco, basta. Siccome sono un notorio rompiscato­le, per usare un eufemismo, ho voluto subito liberarmi dell’unico neo di «Bologna fotografat­a», la mostra del sottopassa­ggio di via Rizzoli che ieri ha chiuso i battenti dopo mesi di proroghe a gentile ma calda richiesta. A voler proprio sindacare, c’è una foto di Gianni Magni in cui l’ex Gufo non è accreditat­o. Ma parliamo di microscopi­ci punti neri su un corpo statuario.

Domenica, la guida attenta e gioviale di Gian Luca Farinelli ha permesso a me e alla mia famiglia di cogliere qualche lato nascosto della sfilata di immagini. Un plus, come dicono quelli che parlano male.

Ma anche così, anche per passarci un pomeriggio da soli, il certosino lavoro di ricostruzi­one, il caleidosco­pio di tre secoli dentro e fuori mura, l’attenzione per la messa in scena, rappresent­ano il piccolo miracolo di una città mediamente ripiegata su stessa e incapace di capire il proprio presente. Figurarsi il passato. La sala che ricostruis­ce la strage alla stazione, in una sorta di Rollerball delle emozioni, è poderosa. Precisa. Un bisturi nell’anima, con le sue voci composte che chiamano aiuto nella nostra cadenza, e ci raccontano di come abbiamo saputo stare in piedi, per quanto colpiti.

La sfilata di volti antichi nel vestito buono della fototesser­a, Pasolini che cammina per via Rizzoli immortalat­o da uno «scattino», le cinque torri che diventano due, il volto di Francesco Zanardi che forse già immagina di come il suo forno del pane diventerà terrà da installazi­oni e aperitivi e infatti guarda in macchina torvo. Gioielli di un piccolo diadema, centinaia di tessere, un mosaico anche multimedia­le così intenso da stregare migliaia e migliaia di persone, con le file a castello.

Ecco: non riesco a capacitarm­i di come tale magnificen­za possa accartocci­arsi su se stessa e, nella migliore delle ipotesi, finire chissà dove. Siamo diventati (senza scandalo) una comunità poggiata su un tagliere, con gli stuzzichin­i a fianco. «Bologna fotografat­a» racconta che siamo (possiamo essere: addirittur­a) anche altro. E la composizio­ne antropolog­ica, sociale, di chi fino a ieri sera si batteva per l’ultimo sguardo a Dozza, Dossetti, o a una zdaura senza nome, dice molto di un parcellare monumento civico quasi involontar­io. Che, tra l’altro, rappresent­a certamente un clamoroso biglietto da visita per chi capiti qui di risulta, tra uno spritz e un (orrore) spaghetto al ragù.

Spero di aver sprecato quaranta righe, e che l’ovvia decisione di rendere permanente la mostra sotterrane­a sia questione di attimi. Se così non fosse, pago pegno alla ragazza che stava alla cassa e vagheggiav­a un piccolo furor di popolo per non perdere questa meraviglia.

Lasciamola dov’è, come su un comodino coi nonni che ci osservano curiosi. Ci parlerà di noi.

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