UNA MOSTRA PERMANENTE
Alla visita guidata eravamo 40 paganti e altrettanti portoghesi.
Mia madre, che è altra mezzo Pupo e poco più, spesso non vedeva alcunché.
Basterebbe un badge per chi ha prenotato.
Egli infiltrati magari si vergognerebbero un po’. Rinculerebbero un filo. Ecco, basta. Siccome sono un notorio rompiscatole, per usare un eufemismo, ho voluto subito liberarmi dell’unico neo di «Bologna fotografata», la mostra del sottopassaggio di via Rizzoli che ieri ha chiuso i battenti dopo mesi di proroghe a gentile ma calda richiesta. A voler proprio sindacare, c’è una foto di Gianni Magni in cui l’ex Gufo non è accreditato. Ma parliamo di microscopici punti neri su un corpo statuario.
Domenica, la guida attenta e gioviale di Gian Luca Farinelli ha permesso a me e alla mia famiglia di cogliere qualche lato nascosto della sfilata di immagini. Un plus, come dicono quelli che parlano male.
Ma anche così, anche per passarci un pomeriggio da soli, il certosino lavoro di ricostruzione, il caleidoscopio di tre secoli dentro e fuori mura, l’attenzione per la messa in scena, rappresentano il piccolo miracolo di una città mediamente ripiegata su stessa e incapace di capire il proprio presente. Figurarsi il passato. La sala che ricostruisce la strage alla stazione, in una sorta di Rollerball delle emozioni, è poderosa. Precisa. Un bisturi nell’anima, con le sue voci composte che chiamano aiuto nella nostra cadenza, e ci raccontano di come abbiamo saputo stare in piedi, per quanto colpiti.
La sfilata di volti antichi nel vestito buono della fototessera, Pasolini che cammina per via Rizzoli immortalato da uno «scattino», le cinque torri che diventano due, il volto di Francesco Zanardi che forse già immagina di come il suo forno del pane diventerà terrà da installazioni e aperitivi e infatti guarda in macchina torvo. Gioielli di un piccolo diadema, centinaia di tessere, un mosaico anche multimediale così intenso da stregare migliaia e migliaia di persone, con le file a castello.
Ecco: non riesco a capacitarmi di come tale magnificenza possa accartocciarsi su se stessa e, nella migliore delle ipotesi, finire chissà dove. Siamo diventati (senza scandalo) una comunità poggiata su un tagliere, con gli stuzzichini a fianco. «Bologna fotografata» racconta che siamo (possiamo essere: addirittura) anche altro. E la composizione antropologica, sociale, di chi fino a ieri sera si batteva per l’ultimo sguardo a Dozza, Dossetti, o a una zdaura senza nome, dice molto di un parcellare monumento civico quasi involontario. Che, tra l’altro, rappresenta certamente un clamoroso biglietto da visita per chi capiti qui di risulta, tra uno spritz e un (orrore) spaghetto al ragù.
Spero di aver sprecato quaranta righe, e che l’ovvia decisione di rendere permanente la mostra sotterranea sia questione di attimi. Se così non fosse, pago pegno alla ragazza che stava alla cassa e vagheggiava un piccolo furor di popolo per non perdere questa meraviglia.
Lasciamola dov’è, come su un comodino coi nonni che ci osservano curiosi. Ci parlerà di noi.