Quelle vittime dimenticate che nessuno reclama
I resti senza nome conservati in Certosa. Il nodo del test sul dna
Undici cadaveri senza nome sono conservati all’obitorio della Certosa, trenta in tutta la regione.
Nessuno li piange. Nessuno li cerca. Degli undici corpi senza nome conservati nelle celle frigorifero della Certosa si conosce solo il luogo del ritrovamento, qualche segno particolare, spesso neanche la causa della morte. E nessuno sa se uno di quei corpi appartenga ad una delle 48.946 persone (dato aggiornato al 30 giugno 2017, ndr) scomparse e mai ritrovate dal ‘74 in Italia.
C’è l’uomo trovato impiccato a Monzuno il 31 agosto del 2002, il ventenne annegato nel laghetto Sapaba di Casalecchio un mese dopo. Ci sono due uomini, tra i 30 e i 35 anni, investiti da un treno, uno ad Anzola l’altro a Castel San Pietro, a una drammatica distanza di due settimane l’uno dall’altro nell’autunno del 2015. Poi c’è una donna trovata carbonizzata nove anni fa in via Castelbolognese: sono le uniche informazioni rimaste di lei. C’è il cadavere appartenuto ad un uomo distinto, tra i 50 e i 60 anni, ritrovato nel Reno il 3 marzo del 2010: vestito, abiti griffati e orologio di marca al polso, ma nessun documento e in otto anni nessuno si è fatto avanti per denunciarne la scomparsa. C’è un uomo ritrovato morto nel canale di scolo della stazione San Ruffillo l’1 luglio di dieci anni fa: il suo corpo era in un tale stato di decomposizione che il medico legale nella scheda ha annotato: «morte presunta tra 1 anno o 10 anni prima». Poi ci sono i resti di ossa umane ritrovate a febbraio 2007 in località Ca’ della Bruciata. Di un 50enne suicida trovato in un cantiere di via Boldrini nel 2009, la polizia aveva diffuso le foto da morto, nella speranza che qualcuno si facesse avanti per riconoscerlo, ma da 9 anni è ancora in obitorio.
A nessuno dei cadaveri senza nome ritrovati nella provincia di Bologna è mai stato fatto, in alcuni casi perché impossibile, il test del dna. Solo dieci anni fa è stato istituito il Registro nazionale dei cadaveri non identificati, che raccoglie dettagli su tutti i corpi ritrovati, per permettere di incrociare le informazioni con le schede delle persone scomparse, nella speranza di dare un nome e una degna sepoltura a uno dei 2.539 cadaveri senza nome conservati negli obitori italiani, di cui trenta in Emilia-Romagna. Le procedure per il prelievo di dna vanno molto a rilento e a macchia di leopardo tra i diversi Comuni: solo un anno e mezzo fa è stato emanato il regolamento attuativo della legge 30/6/2009 che prevede prelievo e tipizzazione del profilo genetico e solo alcune Procure in Lombardia, Toscana e Lazio hanno
I vertici di Penelope Conservarli ha un costo, inserire in banca dati il dna permetterebbe di incrociarlo con i familiari di persone scomparse e consentire loro una degna sepoltura
firmato appositi protocolli.
L’associazione Penelope da anni si batte per chiedere che sia fatto su tutti i corpi il test del dna. «Conservare questi cadaveri ha un costo per lo Stato — osserva Marisa Degli Angeli, responsabile di Penelope Emilia-Romagna —, l’inserimento del dna in banca dati permetterebbe di incrociarlo con quello dei familiari di persone scomparse, per poi seppellire i corpi. Viviamo vite sospese, noi e i nostri cari di cui non abbiamo più notizie, incrociando i profili genetici molte famiglie potrebbero finalmente avere una tomba su cui piangere». La signora De Angelis è mamma di Cristina Golinucci, 22enne scomparsa misteriosamente da Cesena nel ‘92. «Sono convinta che da qualche parte c’è ancora un lembo di mia figlia».