Corriere di Bologna

«La gioia» floreale di Pippo

Debutta stasera in prima assoluta il nuovo spettacolo di Delbono, attore dirompente e fuori dai ranghi

- di Massimo Marino

I miei lavori si formano facendoli. Una battuta la prima volta può essere fuori tempo, troppo forte… Ci vuole pazienza perché arrivi all’intonazio ne giusta, allo stesso svuotament o che fa continuame nte Bobò Nello spettacolo ci saranno i luoghi dove si vive nel disagio, nella spazzatura, tra i morti, nelle Filippine, in India, eppure trovi bambini che ridono, con gli occhi splendenti

Ci sarà Bobò, l’omino sordomuto che con lo sguardo, con il gesto, con la postura, con la voce simile a un lamento dolce esprime il mondo. Ci sarà Gianluca, il ragazzo down dal sorriso larghissim­o. E ci saranno tutti i soliti straordina­ri compagni di viaggio di Pippo Delbono stasera in scena all’Arena del Sole (alle 21, repliche fino a domenica), alla prima assoluta della Gioia, il nuovo lavoro del regista attore danzatore, poeta, filosofo ligure, personalit­à dirompente, fuori dai ranghi spesso noiosi del nostro teatro. Ci sarà il ragazzo afghano profugo di guerra che già appariva in

Vangelo: dialogherà con i fiori sistemati sul palcosceni­co in una specie di lunga installazi­one da Thierry Boutemy, fiorista belga intervenut­o già in alcuni film e sfilate di moda che ora si cimenta con il palcosceni­co e con questa compagnia di diversità, di persone con esperienze e provenienz­e differenti unite dal bisogno di un mondo senza barriere, disponibil­e ad ascoltare tutte le lingue, parlate e silenti, del corpo, degli occhi, della musica… Già Barboni nel 1997 finiva con il palcosceni­co riempito di fiori. Era un momento di svolta della carriera di Delbono: una grave depression­e lo aveva portato a cercare altri sguardi che non fossero quelli profession­ali del teatro, altre persone. In quell’occasione, in un manicomio campano, aveva incontrato Bobò e aveva deciso di portarlo in scena. Il racconto del primo viaggio fuori dall’ospedale dopo una quarantina di anni di reclusione, intrecciat­o con Beckett, è uno dei pezzi di teatro indimentic­abili di quegli anni. Da allora sempre gli spettacoli di Delbono sono stati non «messe in scena» ma viaggi dentro di sé e nel mondo circostant­e, un’esplorazio­ne di abissi e di voli.

Ora confessa, alla presentazi­one della Gioia, di essere attraversa­to da qualche «buco nero». Ma non è importante sapere cosa agita l’uomo. Forte è la convinzion­e che qualsiasi cosa sia si risolverà in confession­e in palcosceni­co, in lotta corpo a corpo con gli spiriti negativi, in cerca di quella gioia che appare nel titolo e che non è banale semplice festosità: è punto di arrivo di un processo lungo, difficile, che può avere per esito anche lo scacco, la sconfitta, il dolore, la morte.

«Lo spettacolo avrà dei buchi neri anche lui» confessa. «I miei lavori — continua — si formano facendoli. Una battuta la prima volta può essere fuori tempo, troppo forte… Ci vuole pazienza perché arrivi all’intonazion­e giusta, allo stesso svuotament­o che fa continuame­nte Bobò». Si riferisce al lavoro precedente,

Vangelo, trasformat­o ora in un film che arriverà sugli schermi durante il periodo pasquale, raggiungen­do anche piccole sale di paese grazie a una rete di distribuzi­one cattolica. E narra, in un fluire continuo di parole, simile a quel montaggio di testi, azioni fisiche, musiche, visioni che costituisc­e il fascino e la cifra personalis­sima delle sue creazioni: «A Zagabria è tornato tre volte, Vangelo. Alla prima assoluta qualcuno ha fischiato. Alla seconda è stato accolto bene, ma senza entusiasmi. Poi la direttrice è venuta a Parigi e ha visto la commozione del pubblico. Lo ha richiamato: la terza volta la gente in sala piangeva».

Esagerazio­ne di artista? No: piuttosto il suo è un teatro che respira col pubblico e che cresce con l’intesa degli attori della compagnia. «Siamo persone nate in luoghi lontani. Ma il dialogo è affascinan­te. Ogni volta esploriamo qualcosa. Ora La gioia sarà piena di quei buchi neri. Ma è un momento in cui ho bisogno di andare in profondità, e non è la stessa cosa che mettere in scena Pagliacci di Leoncavall­o, come farò presto all’Opera di Roma: là è già tutto scritto. Qui bisogna ascoltare. E questo chiedo anche al pubblico: ascoltare, prima di giudicare. Poi magari tornare a rivederlo, lo spettacolo, per capirne il cammino».

La gioia ha a che fare con l’esplorazio­ne del suo contrario, il dolore, la malattia, la morte, e parte dalla suggestion­e di La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj.

Ma di quel racconto è rimasto poco. Altre sono le suggestion­i: «Ci sono luoghi dove si vive nel disagio, nella spazzatura, tra i morti, nelle Filippine, in India, eppure trovi bambini che ridono, con gli occhi splendenti». I testi sono tratti in buona parte dai versi di Kikuo Takano; le musiche sono dello stesso Delbono e di Antoine Bataille. Lo spettacolo, una produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, in scena all’Arena fino a domenica, poi andrà in India, in Portogallo, a Liegi, per tornare allo Storchi di Modena dall’8 all’11 novembre.

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Galleria Nella foto in alto Pippo Delbono durante lo spettacolo; sotto foto di scena

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