Corriere di Bologna

L’ex poliziotto con il figlio, le vittime e i sopravviss­uti In tribunale dopo 38 anni

- An. B. © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Faceva caldo quel giorno a Bologna, così caldo «che cercai riparo nella sala d’attesa. Feci appena in tempo ad appoggiarm­i a una porta, poi ci fu l’esplosione e ripresi conoscenza che ero sotto un treno».

A raccontarl­o è Tonino Braccia, ieri in aula insieme al figlio Nicola, 30enne, che quel giorno non era ancora nato, ma ieri era il più giovane delle parti civili. Suo padre, che oggi di anni ne ha 57, il 2 agosto ‘80 era un giovane poliziotto 19enne del VII reparto mobile, aveva preso servizio a Bologna da poco più di un mese. «Avevo avuto una licenza di poche ore — racconta — per andare a Roma al matrimonio di mia cugina, ero così giovane e felice». La bomba spazzò via tutto e scaraventò lui sotto un treno, tanto che quando i primi soccorrito­ri lo videro pensarono che fosse

” Braccia Mio figlio è il più giovane tra le parti civili, non era nato quando la bomba mi travolse

morto e passarono avanti.

Invece Tonino era vivo, anche se dopo quel giorno ha trascorso più di un anno in ospedale, sottoposto a innumerevo­li interventi chirurgici per medicare fratture e lesioni interne, per ricostruir­gli un braccio, ha perso la vista da un occhio e in parte l’udito da un orecchio, un dito di una mano, ha ancora delle schegge incastrate nel corpo. Ma ieri era in aula, arrivato da Lanciano, suo paese d’origine, come ogni due agosto da quel giorno. Al suo fianco il figlio Nicola, trent’anni: «È surreale essere qui oggi, dopo tanti anni — dice —, senza sapere se anche stavolta arriveremo finalmente alla verità». Quello di ieri per Nicola è stato il primo vero processo sulla strage a cui ha assistito. «Sono venuto all’udienza preliminar­e, ma durante gli altri processi ero troppo piccolo o non ero nato».

” Sono passati tanti, troppi anni, ma abbiamo tutto il diritto di conoscere la verità completa su chi ha cambiato le nostre vite, senza tirare in ballo piste alternativ­e

Eppure, racconta, di aver saputo fin da subito cos’era quella cicatrice sul viso del padre. «Non so dire a che età mi è stato detto della strage, ma creo da piccolissi­mo, non potrei datarlo, credo di aver fatto subito domande quando ho iniziato a capire e ci hanno sempre raccontato tutto, Poi crescendo ho studiato, sono entrato nell’associazio­ne e ora vivo a Bologna, sono un fotografo freelance».

Come padre e figlio ieri c’erano in aula una trentina di parti civili, tra familiari e sopravviss­uti, in silenzio composto per sette ore. Sono novanta in tutto le persone offese costituite nel processo.

C’era il figlio di Antonio Montanari, la vittima più anziana della strage: aveva 86 anni, una vita da mezzadro, era andato in stazione solo per controllar­e gli orari delle corriere ma non tornò mai a casa. Il figlio, anche lui 80enne, ieri era il più anziano in aula, appoggiato al suo bastone ha ascoltato per sette ore. C’era Marina Gamberini, bolognese 58enne, lavorava nell’azienda di ristorazio­ne Cigar, proprio sopra la sala d’attesa. Delle cinque colleghe con cui lavorava quel giorno è l’unica sopravviss­uta. Aveva solo 20 anni il 2 agosto ‘80 e il suo volto è rimasto tristement­e impresso in una delle foto simbolo di quel giorno: è lei la donna sulla barella trasportat­a dai soccorrito­ri immortalat­a per sempre in una smorfia di dolore.

C’era Sonia Zanotti, che aveva 11 anni allora ed era una promessa dello sci agonistico. Poi la bomba e le ferite e 13 anni trascorsi facendo dentro e fuori da un ospedale. Ieri ha raccontato: «Sono arrivata da Bolzano in treno e sono passata davanti a quello squarcio in sala d’attesa. Non nascondo che mi ha fatto effetto, e credo che sarà peggio quando tornerò a prendere il treno dopo l’udienza. Abbiamo diritto di ottenere giustizia».

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