Se Cechov alla fine sbuca a Fico Storie antiche calate nell’oggi
La compagnia Kepler-452 trionfa all’Arena del Sole e ora va a Faenza
Cechov è autore difficilissimo, con le sue vite di speranze naufragate, con il fremito di un minaccioso mondo nuovo che incombe. Perché metterlo ancora in scena più di 100 anni dopo, quando quel ronzio è divenuto rombo, frastuono, esplosione? Perché non racconta fatti ma reazioni intime, smarrite, alle cose dell’esistenza. Quel disagio o quella paura che l’illuminismo non è stato in grado di cancellare, facendo splendere la terra «all’insegna di trionfale sventura» (Adorno).
Nello spettacolo di Kepler452, Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso, ultima produzione Ert, c’è questo e altro. Vibra innanzitutto, nella giovane compagnia di Paola Aiello, Enrico Baraldi e Nicola Borghesi (con il contributo fondamentale in scena di Lodo Guenzi, il cantante degli Stato Sociale), la necessità di confrontarsi con un classico per parlare del mondo nostro al tempo degli sgomberi di case occupate, del turismo invasivo, del più grande centro agro-alimentare del mondo (Fico), di Blu che cancella i suoi murales per non vederli commercializzare.
La vicenda della famiglia aristocratica sull’orlo del fallimento, costretta a svendere casa e terreni di famiglia (e memorie e affetti) a rampanti uomini nuovi, viene calata nella Bologna d’oggi. Protagonisti diventano due non-attori, Giuliano e Annalisa Bianchi, due signori di età matura che hanno dovuto abbandonare la loro «casa della felicità», un cascinale concesso in comodato d’uso. Il Comune se lo è ripreso quando in zona iniziavano i lavori per costruire Fico. Ai due, intabarrati da russi, sono affidati da leggere brani di Cechov. Con registrazioni e racconti riviviamo gli incontri con Borghesi e gli altri: quando si conoscono al Galaxy, rifugio di vari sfollati; quando tornano furtivamente nel cascinale espropriato... Sono disegnati confini di una felicità minuta, suburbana, densa, umana: accoglievano animali smarriti, rifiutati, pericolosi; rom e carcerati. Ora tutto questo non c’è più e viene rivissuto, con scene recitate o improvvisate, in una scena piena di oggetti impacchettati e fiochi abatjour.All’inizio senti nei giovani attori di fronte a Giuliano e Annalisa l’atteggiamento da boy scout di chi da un mondo più o meno dorato scopre la realtà. Qualche nota suona stonata, ma a poco a poco anch’essi si svelano, mettendo in scena la loro stessa distanza, i loro imbarazzi. Così, intensamente, si tocca qualche verità che rende le lame di Cechov di nuovo acuminate. Meriterebbe 7,50 lo spettacolo per qualche ingenuità e imperfezione. O 10, perché fa ritrovare un teatro capace di dare brividi di emozione che si avvicinano a quella profonda divaricazione tra l’avere (o il fingere) e l’essere.