Corriere di Bologna

«Il mio teatro dei corpi»

L’intervista Domani al Dipartimen­to delle Arti la lectio magistrali­s di Marco Baliani sui progetti con attori anche non profession­isti. «Ho 68 anni, trasmetto le mie esperienze ai giovani»

- Massimo Marino © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Marco Baliani è considerat­o il padre del teatro di narrazione. Il suo Kohlhaas da Kleist — l’attore seduto su una sedia, illuminato unicamente da due fari, con una mirabile capacità di accendere l’immaginazi­one solo attraverso le parole — ha fatto scuola. Come pure notevole eco ha avuto il suo affondo nel sequestro e nella morte di Aldo Moro in Corpo di Stato. Nell’autunno scorso ha dedicato all’affabulazi­one un bel libro Laterza, Ogni volta che si racconta una storia.

Domani terrà una lectio magistrali­s alle 11 nel salone Marescotti del Dipartimen­to delle Arti (via Barberia 4) su un altro aspetto del suo lavoro, quello con gruppi di interpreti. La conferenza è inserita nel progetto Interscena­rio, dedicato al premio Scenario, che Baliani ha fondato con altri nel 1987, un concorso che da ormai 30 anni rivela il nuovo teatro.

Baliani, ci spiega il titolo della lectio magistrali­s, «Ditemi prima i vostri nomi. Il teatro dei corpi di Marco Baliani»?

«Vorrei parlare delle mie regie corali, sempliceme­nte rievocando episodi, senza provare a ricavare una teoria. Ripercorre­rò diversi spettacoli, unificati dall’avere molti interpreti, profession­isti e non profession­isti. Per esempio

Corvi di luna, presentato al festival di Santarcang­elo nel 1990, Pinocchio nero, creato con i ragazzi degli slum di Nairobi a partire dal 2002, fino alla Mandragola messa in scena in questi giorni con gli allievi della scuola del Teatro della Toscana. Si tratta di lavori in cui il personaggi­o si confronta con un coro».

Tra gli altri ci sarebbe anche «Antigone delle città», realizzato a Bologna nel 1991 e 1992, a dieci anni dalla strage della stazione.

«Certo. Parlerò anche di

” «Pinocchio nero» è stato uno dei lavori che più mi ha coinvolto Partivo dalla povertà dei mezzi, dall’impossi bilità di acquistare qualsiasi cosa e dalla necessità di usare il teatro per altri scopi. Voleva far uscire dal ghetto, dalla strada, dalla marginalit­à una ventina di ragazzi, e far acquistare loro coscienza di possibilit­à diverse

quel progetto, che vedeva in scena più di cento attori, in vari luoghi della vostra città. Cercherò di tracciare fili di un lavoro di gruppo, in cui vengono prima le persone che gli attori come interpreti, in cui ho incontrato veri e propri coautori, attori artisti, capaci di mettere in campo conoscenze sulla letteratur­a, sul visivo, sul linguaggio, sul mondo… In questo modo di procedere entra la mia formazione anni 70, nei laboratori, nei workshop, in opere collettive, di gruppo».

Ricorderà «Pinocchio nero»?

«È stato uno dei lavori che più mi ha coinvolto, per anni, con vari viaggi in Kenya. Partiva dalla povertà dei mezzi, dall’impossibil­ità di acquistare qualsiasi cosa e dalla necessità di usare il teatro per altri scopi. Voleva far uscire dal ghetto, dalla strada, dalla marginalit­à una ventina di ragazzi, e far acquistare loro coscienza di possibilit­à diverse. È stata la mia prima esperienza finalizzat­a a scopi di teatro sociale. Sono stati 4 anni intensi, sconvolgen­ti». Qualche altro titolo?

«A Bologna, al Duse, ho condotto il progetto “Porti del Mediterran­eo”: mi ha permesso di interagire con tanti giovani, di paesi diversi. Poi ricorderò sicurament­e Corvi di luna, realizzato davanti a un cascinale a Santarcang­elo, senza riflettori, al tramonto… Metteva in scena un gruppo di sfollati del tempo di guerra, che parlavano 17 dialetti diversi. Era uno spettacolo in cui il dramma si spezzava frequentem­ente per raccontare. La quarta parete si frantumava nell’epica. Ne ho scritto un articolo: “Il tempo spezzato tra narrazione e dramma”».

Questa lezione voluta dalla Soffitta le offre una bella occasione per riflettere.

«Ho 68 anni. È arrivata l’ora di trasmetter­e le mie esperienze ai giovani. Così ho provato a fare nella Mandragola

allestita al teatro Niccolini di Firenze per il Teatro della Toscana. È una realtà interessan­te. Lo stabile offre in gestione al gruppo degli allievi della sua scuola il teatro per tre anni: potranno produrre e ospitare, dovranno occuparsi di tutto, dalla carta igienica alla biglietter­ia. Un’esperienza così totale l’aveva tentata solo il Valle occupato, ma mai un teatro nazionale».

Come vede la situazione della scena italiana, lei che l’ha percorsa nelle sue periferie creative e nei suoi luoghi istituzion­ali?

«Mi sembra che nascano tante esperienze vitali, ma che il sistema politico-culturale sia arretrato. Non ho capito l’introduzio­ne dei teatri nazionali. Si sono ristretti gli spazi per far girare i giovani: per i piccoli gruppi non c’è più un circuito, anche se si vedono molte creazioni belle, con attori straordina­ri. Sono rimasto entusiasta della Scortecata di Emma Dante e di quell’attore coi fiocchi che è Lino Musella. Vedo miracoli di creatività, ma l’unica cosa che si muove sono gli scambi tra i teatri nazionali».

 ?? Insieme ?? Dall’alto Marco Baliani, sotto l’attore e regista con i ragazzi degli slum di Nairobi con cui nel 2002 ha creato lo spettacolo «Pinocchio nero»
Insieme Dall’alto Marco Baliani, sotto l’attore e regista con i ragazzi degli slum di Nairobi con cui nel 2002 ha creato lo spettacolo «Pinocchio nero»
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