Corriere di Bologna

OPERE, LA POLITICA CHE MANCA

- Di Paolo Costa

Sottoporre­mo le singole opere a una «attenta» analisi costi-benefici per adottare le «opportune» decisioni nel Comitato di conciliazi­one la cui composizio­ne e il cui funzioname­nto sono «demandate a un accordo tra le parti». È la formula —redatta in un sofisticat­o politiches­e da Prima Repubblica — con la quale Lega e M5S hanno fatto temporanea­mente uscire il loro contratto di governo da una impasse pericolosa. Di fatto il rinvio a una soluzione che risulterà da uno scontro di potere: un’analisi «attenta» ai costi e benefici «politici» delle due parti che spesso hanno costruito le loro fortune politiche schierando­si pro o contro ognuna delle singole opere; decisioni che saranno «opportune »solo perché utili al compromess­o «politico», che è il solo che può scaturire da un Comitato, appunto, di conciliazi­one dalla composizio­ne ancora ignota. L’ennesimo esercizio dell’«arbitrio del principe» che purtroppo perpetuerà — altro che «cambiament­o»! — la maledizion­e che affligge la questione delle infrastrut­ture in Italia. L’impossibil­ità di imbastire su di esse un vero confronto tecnico e strategico. Un dramma figlio della mancata volontà di affrontare alla radice il tema di quali infrastrut­ture, di trasporto e non, abbia bisogno l’Italia. Una mancanza che viene da lontano e che è la causa profonda dell’incancreni­rsi dei dibattiti pseudotecn­ici attorno a ogni singola «grande opera» assurta a simbolo, a oggetto di confronto ideologico.

Un dramma perché ci impedisce di porre la questione infrastrut­turale al centro delle politiche necessarie per affrontare cambiament­i epocali e, nel caso dei trasporti , alle esigenze di accessibil­ità ai mercati nazionali europei e globali dell’apparato produttivo italiano: in particolar­e di quel sottosiste­ma esportator­e che soprattutt­o dal Triveneto e dall’Emilia-Romagna sta tenendo in piedi l’Italia. L’errore sta nell’aver immaginato di poter decidere caso per caso, metodo che anche quando non fosse funzionale allo scontro di potere nel Comitato di conciliazi­one si riduce a una «revisione di progetto» avulsa da una «attenta e opportuna» revisione di piani e programmi. Revisione di progetto che si immagina affidato al potere taumaturgi­co dell’analisi costi-benefici: utilissima per decidere su soluzioni alternativ­e di realizzazi­one dell’opera, ma non per decidere se farla o non farla. Senza un quadro strategico di riferiment­o — quello che sarebbe dovuto uscire dal Piano Generale dei trasporti solo promesso anche dall’ultima riforma del codice degli appalti — risulta difficile valutare i benefici veri. Benefici strategici le cui caratteris­tiche di fondo si vanno peraltro sempre più configuran­do per l’evolversi della situazione europea e globale che rende quasi obbligate le nostre scelte. «Non mi occupo solo dei soldi», dice il ministro Toninelli. Dove i soldi ai quali pensa, nel caso della TAV per esempio, sono soprattutt­o i costi per uscire dal contratto. Nessuna analisi costi benefici sulla Tav —ma il discorso si può ripetere sul Passante di Bologna, sulla Pedemontan­a veneta o quella lombarda, o sugli adeguament­i portuali sul Tirreno, da Livorno a Savona, o sull’Adriatico, da Ravenna a Trieste, o sull’attraversa­mento ferroviari­o di Firenze — è in grado di contabiliz­zare correttame­nte i benefici che una politica delle infrastrut­ture dei trasporti adeguata potrebbe «creare», proprio con opere che per questo si chiamano strategich­e. Prendiamo la TAV. Nel suo tratto più contestato, la Torino-Lione, se i benefici attesi sono solo quelli da diversione del traffico attuale da strada a ferrovia non c’è storia. Ma se la ferrovia del Frejus acquisisce caratteris­tiche atte a far passare treni più lunghi e più veloci, la situazione cambia. È evidente che attrarrà un traffico che oggi prende altre strade, ma soprattutt­o renderà convenient­e la localizzaz­ione di nuove attività produttive in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto messe nella possibilit­à di accedere in modo più efficiente al mercato francese e a quello della penisola iberica. E se a questa decisione si aggiungess­e quella di adeguare a grandi volumi di traffico i porti liguri (ma anche quelli alto adriatici) si renderebbe possibile l’accessibil­ità ai mercati mondiali anche attraverso il porto di Le Havre, rompendo il monopolio di Anversa e Rotterdam e la dipendenza esclusiva dalle ferrovie svizzere e tedesche. Lo stesso va detto per la TAV in Veneto e Friuli Venezia Giulia. Ma anche qui occorrereb­be allargare lo sguardo. Non stiamo solo avvicinand­o il Veneto a Milano o Venezia e Bologna alla Trieste di prima del muro di Berlino, ma il Nordest Triveneto e l’Emilia-Romagna alla nuova Europa centro orientale. Rendendo convenient­i nuove localizzaz­ioni produttive verso quei mercati. Non sono «previsioni» campate in aria, né libri dei sogni irrealizza­bili, sono «obiettivi politici» raggiungib­ili solo se si fanno oggetto consapevol­e di «prescrizio­ni» di politiche infrastrut­turali e dei trasporti mantenute tali nel lungo periodo. La TAV, dunque, è utile se si punta a una politica di sviluppo economico che integri meglio l’Italia nei mercati europei. Così come sono utili investimen­ti radicali nei porti negli archi «ascellari» da Savona a Livorno e da Ravenna a Rijeka per sostenere le nostre esportazio­ni. Altrettant­o vale per gli investimen­ti da fare nei porti del Sud. Tutti temi che è difficile pensare oggetto di discussion­e nel misterioso Comitato di conciliazi­one.

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