OPERE, LA POLITICA CHE MANCA
Sottoporremo le singole opere a una «attenta» analisi costi-benefici per adottare le «opportune» decisioni nel Comitato di conciliazione la cui composizione e il cui funzionamento sono «demandate a un accordo tra le parti». È la formula —redatta in un sofisticato politichese da Prima Repubblica — con la quale Lega e M5S hanno fatto temporaneamente uscire il loro contratto di governo da una impasse pericolosa. Di fatto il rinvio a una soluzione che risulterà da uno scontro di potere: un’analisi «attenta» ai costi e benefici «politici» delle due parti che spesso hanno costruito le loro fortune politiche schierandosi pro o contro ognuna delle singole opere; decisioni che saranno «opportune »solo perché utili al compromesso «politico», che è il solo che può scaturire da un Comitato, appunto, di conciliazione dalla composizione ancora ignota. L’ennesimo esercizio dell’«arbitrio del principe» che purtroppo perpetuerà — altro che «cambiamento»! — la maledizione che affligge la questione delle infrastrutture in Italia. L’impossibilità di imbastire su di esse un vero confronto tecnico e strategico. Un dramma figlio della mancata volontà di affrontare alla radice il tema di quali infrastrutture, di trasporto e non, abbia bisogno l’Italia. Una mancanza che viene da lontano e che è la causa profonda dell’incancrenirsi dei dibattiti pseudotecnici attorno a ogni singola «grande opera» assurta a simbolo, a oggetto di confronto ideologico.
Un dramma perché ci impedisce di porre la questione infrastrutturale al centro delle politiche necessarie per affrontare cambiamenti epocali e, nel caso dei trasporti , alle esigenze di accessibilità ai mercati nazionali europei e globali dell’apparato produttivo italiano: in particolare di quel sottosistema esportatore che soprattutto dal Triveneto e dall’Emilia-Romagna sta tenendo in piedi l’Italia. L’errore sta nell’aver immaginato di poter decidere caso per caso, metodo che anche quando non fosse funzionale allo scontro di potere nel Comitato di conciliazione si riduce a una «revisione di progetto» avulsa da una «attenta e opportuna» revisione di piani e programmi. Revisione di progetto che si immagina affidato al potere taumaturgico dell’analisi costi-benefici: utilissima per decidere su soluzioni alternative di realizzazione dell’opera, ma non per decidere se farla o non farla. Senza un quadro strategico di riferimento — quello che sarebbe dovuto uscire dal Piano Generale dei trasporti solo promesso anche dall’ultima riforma del codice degli appalti — risulta difficile valutare i benefici veri. Benefici strategici le cui caratteristiche di fondo si vanno peraltro sempre più configurando per l’evolversi della situazione europea e globale che rende quasi obbligate le nostre scelte. «Non mi occupo solo dei soldi», dice il ministro Toninelli. Dove i soldi ai quali pensa, nel caso della TAV per esempio, sono soprattutto i costi per uscire dal contratto. Nessuna analisi costi benefici sulla Tav —ma il discorso si può ripetere sul Passante di Bologna, sulla Pedemontana veneta o quella lombarda, o sugli adeguamenti portuali sul Tirreno, da Livorno a Savona, o sull’Adriatico, da Ravenna a Trieste, o sull’attraversamento ferroviario di Firenze — è in grado di contabilizzare correttamente i benefici che una politica delle infrastrutture dei trasporti adeguata potrebbe «creare», proprio con opere che per questo si chiamano strategiche. Prendiamo la TAV. Nel suo tratto più contestato, la Torino-Lione, se i benefici attesi sono solo quelli da diversione del traffico attuale da strada a ferrovia non c’è storia. Ma se la ferrovia del Frejus acquisisce caratteristiche atte a far passare treni più lunghi e più veloci, la situazione cambia. È evidente che attrarrà un traffico che oggi prende altre strade, ma soprattutto renderà conveniente la localizzazione di nuove attività produttive in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto messe nella possibilità di accedere in modo più efficiente al mercato francese e a quello della penisola iberica. E se a questa decisione si aggiungesse quella di adeguare a grandi volumi di traffico i porti liguri (ma anche quelli alto adriatici) si renderebbe possibile l’accessibilità ai mercati mondiali anche attraverso il porto di Le Havre, rompendo il monopolio di Anversa e Rotterdam e la dipendenza esclusiva dalle ferrovie svizzere e tedesche. Lo stesso va detto per la TAV in Veneto e Friuli Venezia Giulia. Ma anche qui occorrerebbe allargare lo sguardo. Non stiamo solo avvicinando il Veneto a Milano o Venezia e Bologna alla Trieste di prima del muro di Berlino, ma il Nordest Triveneto e l’Emilia-Romagna alla nuova Europa centro orientale. Rendendo convenienti nuove localizzazioni produttive verso quei mercati. Non sono «previsioni» campate in aria, né libri dei sogni irrealizzabili, sono «obiettivi politici» raggiungibili solo se si fanno oggetto consapevole di «prescrizioni» di politiche infrastrutturali e dei trasporti mantenute tali nel lungo periodo. La TAV, dunque, è utile se si punta a una politica di sviluppo economico che integri meglio l’Italia nei mercati europei. Così come sono utili investimenti radicali nei porti negli archi «ascellari» da Savona a Livorno e da Ravenna a Rijeka per sostenere le nostre esportazioni. Altrettanto vale per gli investimenti da fare nei porti del Sud. Tutti temi che è difficile pensare oggetto di discussione nel misterioso Comitato di conciliazione.